Skip to main content

Spedizione gratuita da € 24,90

Piaghe da decubito: lesioni cutanee, cause, prevenzione e trattamento

Le piaghe da decubito sono lesioni cutanee e dei tessuti sottostanti che si sviluppano a seguito di una pressione prolungata, spesso accompagnata da frizione e trazione, che impedisce il corretto apporto di sangue. Questo processo, noto come ischemia cutanea, provoca un’insufficiente ossigenazione e nutrizione dei tessuti, determinando un progressivo danneggiamento e necrosi.

Il danno non si limita alla superficie cutanea, ma coinvolge anche i tessuti sottocutanei, rendendo la lesione più profonda e difficile da trattare. Le manifestazioni iniziali includono arrossamenti persistenti e indurimento della pelle nelle zone sottoposte a pressione continua, tipicamente in persone immobilizzate a letto o su sedia a rotelle senza la possibilità di muoversi autonomamente.

Se non riconosciute e gestite tempestivamente, queste lesioni possono evolvere in ulcere con esposizione di strati profondi come muscoli e ossa. Perciò, il monitoraggio accurato e un intervento precoce sono essenziali per prevenire complicanze gravi.

Definizione e caratteristiche principali

Le piaghe da decubito, anche dette ulcere da compressione, rappresentano aree di danno localizzato a livello della pelle e dei tessuti sottostanti causate da una pressione costante o ripetuta. Queste lesioni si manifestano inizialmente con un arrossamento cutaneo che non scompare alla pressione, segno di compromissione vascolare.

Nei casi più avanzati si osservano necrosi e perdita di tessuto, con esposizione di tessuti profondi come i sottocutanei e, in situazioni gravi, muscoli, tendini o ossa. La frizione e la trazione, spesso derivanti da movimenti involontari o spostamenti impropri, aggravano il danno cutaneo.

È fondamentale distinguere tra lesioni superficiali, che coinvolgono epidermide e derma, e lesioni profonde che interessano i tessuti sottocutanei, poiché tale differenza orienta le strategie terapeutiche più appropriate.

Zone del corpo più colpite e localizzazioni comuni

Le piaghe da decubito si sviluppano prevalentemente in corrispondenza delle prominenze ossee dove la pelle è sottile e il tessuto molle limitato, facilitando la compressione dei vasi sanguigni. Le aree più vulnerabili includono l’osso sacro, i talloni, i gomiti, le caviglie e i trocanteri.

In queste sedi, la pelle è compressa tra l’osso e il supporto esterno, come il letto o la sedia a rotelle, con conseguente compromissione della circolazione locale. L’incidenza di queste lesioni aumenta significativamente nei pazienti allettati o con mobilità limitata.

Sebbene meno comuni, possono comparire anche in altre zone corporee e, occasionalmente, in bambini con disabilità neurologiche che riducono il movimento e la sensibilità.

Vuoi prevenire le piaghe da decubito in modo efficace? Scopri la nostra selezione di materassi antidecubito certificati CE progettati per migliorare il comfort, ridurre la pressione e favorire la circolazione. Soluzioni ideali per anziani, disabili e pazienti allettati.

Fattori di rischio e cause delle piaghe da decubito

La comparsa delle piaghe da decubito è influenzata da molteplici fattori intrinseci ed estrinseci che, singolarmente o combinati, aumentano la suscettibilità alla lesione. Tra i fattori intrinseci si annoverano l’età avanzata, che comporta una pelle più fragile e meno elastica, la malnutrizione, il diabete, le malattie neurologiche che compromettono la sensibilità e la capacità di movimento, e condizioni cliniche che limitano la mobilità, costringendo la persona a lunghi periodi di allettamento o sedentarietà.

I fattori estrinseci includono la pressione prolungata su specifiche aree corporee, la frizione e la trazione durante gli spostamenti o i cambi di posizione, l’umidità derivante da sudorazione o incontinenza, e l’esposizione a sostanze irritanti come urine e feci. Questi elementi aggravano il rischio, soprattutto quando la sensibilità è ridotta e il paziente non può spostarsi autonomamente per alleviare la pressione.

Le popolazioni maggiormente a rischio comprendono gli anziani, i pazienti immobilizzati o allettati per lunghi periodi, e quelli ricoverati in Unità di Terapia Intensiva (ICU), dove la mobilità e la sensibilità sono spesso compromesse. Anche i pazienti pediatrici con disabilità neurologiche rappresentano un gruppo vulnerabile, seppur con minore incidenza rispetto agli adulti.

Principali fattori intrinseci ed estrinseci

I fattori intrinseci sono correlati alle condizioni cliniche e fisiologiche dell’individuo, come malattie croniche, deficit neurologici e l’età avanzata, che riducono la capacità rigenerativa della pelle. La malnutrizione contribuisce a indebolire i tessuti, aumentando il rischio di lesioni.

Tra i fattori estrinseci, la pressione prolungata è il principale responsabile della riduzione del flusso sanguigno, mentre la frizione e la trazione, che si verificano durante le manovre di spostamento, provocano microtraumi cutanei. L’umidità, causata da sudorazione o incontinenza, favorisce la macerazione della pelle, rendendola più vulnerabile. L’uso non adeguato di presidi come materassi o cuscini può amplificare questi rischi.

La combinazione di questi elementi crea un contesto favorevole allo sviluppo delle piaghe da decubito, rendendo indispensabile un approccio preventivo integrato e personalizzato.

Popolazioni più a rischio (anziani, immobilizzati, ICU)

Gli anziani sono particolarmente predisposti a causa della fragilità cutanea e della presenza di comorbidità che limitano la mobilità. I pazienti costretti a letto o su sedia a rotelle per periodi prolungati sono vulnerabili, poiché l’assenza di movimento impedisce l’alleviamento della pressione sulle aree critiche.

Nei reparti di Terapia Intensiva (ICU), la ridotta sensibilità e la paralisi, temporanea o permanente, aumentano ulteriormente il rischio di formazione di queste lesioni, rendendo necessaria una sorveglianza continua. Anche neonati e bambini con disabilità neurologiche possono sviluppare piaghe da decubito, sebbene con frequenza inferiore rispetto agli adulti.

Le persone paralizzate o in stato di incoscienza non percepiscono il dolore o il fastidio che normalmente stimolerebbero il cambio di posizione, aumentando così la probabilità di insorgenza e progressione delle lesioni.

Classificazione e stadiazione delle piaghe da decubito

La classificazione internazionale delle piaghe da decubito, riconosciuta da enti come il National Pressure Injury Advisory Panel (NPUAP) e l’European Pressure Ulcer Advisory Panel (EPUAP), distingue quattro stadi di gravità, fondamentali per la gestione clinica e terapeutica. Questa categorizzazione consente di valutare il grado di coinvolgimento dei tessuti, dalla semplice alterazione cutanea fino a lesioni profonde che espongono muscoli, tendini e ossa.

Una stadiazione accurata è indispensabile per definire un piano terapeutico adeguato e monitorare l’evoluzione della lesione, garantendo un trattamento personalizzato e più efficace.

Stadi da I a IV e caratteristiche distintive

Lo stadio I si presenta con un arrossamento cutaneo che non sbianca alla pressione digitale, segno di alterata vascolarizzazione senza perdita di tessuto. Lo stadio II comporta una perdita parziale dello spessore cutaneo, con formazione di vescicole o ulcere superficiali.

Nel terzo stadio si verifica una perdita completa dello spessore cutaneo con esposizione del tessuto sottocutaneo, mentre il quarto rappresenta la forma più grave, con perdita profonda che coinvolge muscoli, tendini o ossa. La prognosi peggiora con l’aumentare della gravità, richiedendo interventi terapeutici più complessi e prolungati.

Lesioni non classificabili e complicanze

Le lesioni non classificabili sono quelle in cui la presenza di tessuto necrotico, escara o abbondante essudato impedisce una valutazione precisa dello stadio. Questi casi necessitano di particolare attenzione diagnostica e una gestione terapeutica mirata.

Le complicanze più frequenti e gravi includono infezioni locali che possono estendersi fino a osteomielite o sepsi, oltre a dolore cronico che compromette la qualità di vita. La diagnosi precoce e il monitoraggio costante sono essenziali per prevenire queste condizioni e migliorare l’esito clinico.

Prevenzione efficace delle piaghe da decubito

La prevenzione rappresenta il metodo più efficace per ridurre l’incidenza delle piaghe da decubito, fondandosi su interventi mirati a ridurre la pressione e proteggere la pelle. Il riposizionamento e la mobilizzazione frequente sono fondamentali: si raccomanda di cambiare posizione almeno ogni due ore per chi è costretto a letto e ogni 15-20 minuti per chi utilizza una sedia a rotelle, per alleviare la pressione sulle aree a rischio.

L’impiego di presidi antidecubito come materassi ad aria a pressione alternata, cuscini in memory foam o gel e talloniere contribuisce a distribuire uniformemente la pressione, prevenendo la formazione di lesioni. La cura quotidiana della pelle con detergenti delicati, creme idratanti e protezioni contro l’umidità mantiene l’integrità cutanea e riduce il rischio di macerazione.

Una nutrizione adeguata, ricca di proteine, vitamine e minerali, insieme a un’idratazione costante, favorisce la salute dei tessuti e la loro capacità rigenerativa. Infine, la formazione specifica di caregiver e operatori sanitari è cruciale per assicurare l’applicazione corretta delle misure preventive e per riconoscere tempestivamente i segni iniziali della lesione.

Strategie di mobilizzazione e cambio di posizione

La mobilizzazione deve essere eseguita regolarmente con attenzione per evitare frizioni e sfregamenti che possono danneggiare ulteriormente la pelle. Durante il cambio di posizione, consigliato almeno ogni due ore a letto e ogni 15-20 minuti su sedia a rotelle, è importante sollevare adeguatamente la persona senza trascinarla, per prevenire traumi cutanei.

Le tecniche corrette per muovere e posizionare il paziente sono fondamentali e spesso richiedono il supporto di fisioterapisti e personale specializzato, che personalizzano gli interventi in base alle condizioni specifiche della persona.

Uso di presidi e ausili antidecubito

I presidi antidecubito sono strumenti essenziali nella prevenzione delle lesioni da pressione. I materassi ad aria a pressione alternata alternano il gonfiaggio e lo sgonfiaggio delle camere d’aria per ridurre la pressione sulle zone vulnerabili. I cuscini in memory foam o gel distribuiscono il peso in modo uniforme, alleviando i punti di maggiore pressione.

Talloniere e barriere protettive adesive proteggono specifiche aree, come i talloni, dall’umidità e dai traumi meccanici. La scelta del presidio deve essere personalizzata in base al livello di rischio e alle condizioni cliniche, valutando benefici e limiti di ciascun dispositivo.

Cura della pelle e igiene quotidiana

La cura quotidiana della pelle è fondamentale per mantenerne l’integrità e prevenire lesioni. Si consiglia l’uso di detergenti delicati, che rispettino il pH naturale, e l’applicazione regolare di creme idratanti per evitare secchezza e desquamazione.

La protezione dalla macerazione e dall’umidità, soprattutto in presenza di incontinenza, è essenziale: per questo si impiegano barriere protettive adesive nelle zone più vulnerabili. Una corretta igiene riduce il rischio di infezioni e contribuisce a mantenere un ambiente cutaneo sano.

Nutrizione e idratazione adeguata

Una nutrizione equilibrata, ricca di proteine, vitamine (in particolare A, C ed E) e minerali come zinco e ferro, è fondamentale per favorire la rigenerazione dei tessuti e mantenere la resistenza cutanea. L’idratazione costante aiuta a mantenere la pelle elastica e supporta il metabolismo cellulare.

Nei pazienti a rischio, prevenire malnutrizione e disidratazione è essenziale, poiché queste condizioni rallentano la guarigione e aumentano la vulnerabilità alle lesioni da pressione.

Formazione caregiver e educazione del paziente

La formazione specifica di caregiver e operatori sanitari è indispensabile per garantire una corretta prevenzione e gestione delle piaghe da decubito. L’educazione comprende le tecniche corrette di mobilizzazione, l’igiene della pelle e l’uso appropriato dei presidi antidecubito.

È importante sensibilizzare anche il paziente, quando possibile, a riconoscere i segnali precoci di lesione e a collaborare nelle misure preventive. La comunicazione multidisciplinare tra professionisti facilita un approccio coordinato e più efficace.

Diagnosi e monitoraggio delle piaghe da decubito

La diagnosi si basa principalmente sull’esame obiettivo della pelle e dei tessuti circostanti, con particolare attenzione all’identificazione dello stadio della lesione. Le scale di valutazione sviluppate da NPUAP ed EPUAP consentono una classificazione standardizzata utile per la gestione clinica.

Strumenti diagnostici aggiuntivi, come le scale di rischio Braden e Norton, aiutano a stimare la probabilità di insorgenza delle lesioni nelle persone a rischio. La documentazione clinica e fotografica regolare è fondamentale per monitorare l’evoluzione della ferita e adattare tempestivamente il trattamento.

Un monitoraggio continuo permette di individuare precocemente segni di infezione o peggioramento, garantendo un intervento tempestivo e multidisciplinare.

Valutazioni cliniche e strumenti diagnostici

Le scale di valutazione del rischio, come Braden e Norton, considerano fattori quali mobilità, sensibilità, umidità cutanea e stato nutrizionale, fornendo un punteggio che guida l’approccio preventivo. La classificazione NPUAP/EPUAP definisce lo stadio della lesione per orientare il trattamento clinico.

In alcuni casi, possono essere utilizzati strumenti di imaging o tecniche specialistiche per approfondire la valutazione della profondità e dell’estensione della lesione, sebbene l’esame clinico rimanga il metodo principale.

La diagnosi precoce, supportata da questi strumenti, riduce il rischio di complicanze e migliora la prognosi complessiva.

Monitoraggio dell’evoluzione e delle complicanze

Il monitoraggio regolare dello stato della ferita consente di osservare i cambiamenti clinici e individuare precocemente segni di infezione o peggioramento. La documentazione scritta e fotografica aiuta a valutare l’efficacia del trattamento e a modificarlo in base all’evoluzione.

Un team multidisciplinare composto da medici, infermieri e fisioterapisti svolge un ruolo cruciale nel monitoraggio, assicurando un approccio integrato e tempestivo per prevenire complicanze e favorire la guarigione.

Trattamento delle piaghe da decubito

Il trattamento dipende dallo stadio e dalla gravità della lesione e comprende interventi conservativi e chirurgici. La pulizia accurata della ferita con antisettici specifici è fondamentale per ridurre il rischio di infezioni.

L’applicazione di medicazioni protettive e avanzate mantiene un ambiente umido controllato, favorendo la cicatrizzazione e proteggendo i tessuti. Il debridement, ovvero la rimozione del tessuto necrotico, è essenziale per permettere la rigenerazione dei tessuti sani.

Nei casi più gravi, soprattutto se coinvolgono ossa o infezioni importanti, è indicato il trattamento chirurgico ricostruttivo. La gestione del dolore e la prevenzione delle infezioni tramite terapie farmacologiche mirate fanno parte integrante del percorso terapeutico.

Un adeguato supporto nutrizionale e un approccio multidisciplinare migliorano gli esiti e riducono i tempi di recupero.

Interventi conservativi: pulizia, medicazioni e medicazioni avanzate

La pulizia della ferita si effettua con antisettici mirati, che prevengono contaminazioni senza danneggiare i tessuti sani circostanti. Le medicazioni tradizionali proteggono la ferita, mentre quelle avanzate, come idrogel o schiume, mantengono un ambiente favorevole alla guarigione.

Il debridement è una procedura indispensabile per rimuovere il tessuto necrotico, prevenendo infezioni e favorendo la formazione di nuovo tessuto sano. Questa fase richiede competenze specialistiche per preservare le strutture sane circostanti.

Trattamenti chirurgici e ricostruttivi

In presenza di piaghe profonde o infette, si ricorre a interventi chirurgici per decontaminare la ferita, rimuovere tessuti danneggiati e ricostruire le aree compromesse tramite innesti cutanei o lembi muscolari.

Il trattamento post-operatorio è multidisciplinare e include la prevenzione di recidive attraverso mobilizzazione, nutrizione e cura continua della pelle.

Gestione del dolore e infezioni

Il dolore correlato alle piaghe da decubito può diventare cronico e richiede un approccio farmacologico personalizzato, con l’uso di analgesici e antinfiammatori. Tecniche di supporto migliorano la qualità di vita del paziente.

Le infezioni, locali o sistemiche, vengono trattate con antibiotici mirati dopo diagnosi tempestiva. La prevenzione e il controllo delle infezioni sono fondamentali per evitare complicanze gravi come osteomielite e sepsi.

Tempi di guarigione e complicanze

I tempi di guarigione variano in base allo stadio della lesione e alle condizioni generali del paziente. Le lesioni di primo e secondo stadio possono risolversi in alcune settimane con cure adeguate, mentre gli stadi più avanzati richiedono mesi e trattamenti complessi.

Fattori come comorbidità, stato nutrizionale, qualità dell’assistenza e tempestività degli interventi influenzano i tempi di recupero. Le complicanze più frequenti includono infezioni, osteomielite, sepsi e dolore cronico, che peggiorano la prognosi e aumentano la mortalità.

Queste condizioni incidono significativamente sulla qualità di vita, rendendo indispensabile un approccio preventivo e terapeutico tempestivo e multidisciplinare.

Durata media di recupero in base allo stadio

La guarigione delle piaghe da decubito di stadio I e II avviene generalmente entro 2-4 settimane con interventi adeguati. Le lesioni di stadio III e IV richiedono tempi più lunghi, spesso superiori a tre mesi, a causa della profondità e complessità del danno.

Comorbidità come diabete, malnutrizione o infezioni possono rallentare il recupero, sottolineando l’importanza di un trattamento integrato e personalizzato.

Rischio di infezioni e altre complicanze

Le infezioni rappresentano una delle complicanze principali che possono aggravare le piaghe da decubito. Le infezioni locali possono progredire verso osteomielite o sepsi, aumentando il rischio per la vita del paziente. Il dolore cronico e la perdita di funzionalità sono frequenti, compromettendo la qualità di vita.

L’aumento della mortalità associato a queste lesioni evidenzia la necessità di una prevenzione rigorosa, una diagnosi precoce e un trattamento efficace per ridurre incidenza e gravità delle complicanze.

Innovazioni e sfide nell’Ortopedia italiana

L’ortopedia in Italia sta vivendo un’era di significativi progressi e affronta diverse sfide, soprattutto nel contesto delle restrizioni imposte dalla pandemia. Un esempio di eccellenza è il reparto di ortopedia dell’ospedale di Merate, efficacemente guidato dal Dr. Antonio Rocca dal 2020. Nonostante le difficoltà operative legate alla pandemia, il reparto ha mantenuto elevati standard di performance, eseguendo centinaia di operazioni in tempi ristretti.

Contemporaneamente, la Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia (SIOT) è impegnata a correggere numerosi malintesi sulla disciplina. Sta combattendo contro miti diffusi, come quelli dei “nervi accavallati” o diagnosi imprecise di “cervicale”, promuovendo una comprensione più rigorosa e scientifica dei disturbi muscolo-scheletrici.

A Roma, l’Ortopedia Malatesta si adatta alle esigenze crescenti della popolazione offrendo un’ampia gamma di ausili ortopedici e sanitari. Questi includono servizi all’avanguardia come il noleggio e la consegna a domicilio di dispositivi per la mobilità, rispondendo così direttamente alle necessità dei suoi clienti.

Recentemente, a Enna, le nomine della dottoressa Viviana Zarbà e del Dr. Francesco Campo segnano un passo avanti nella regionalizzazione dei servizi, con l’obiettivo di migliorare l’accesso e la qualità dell’assistenza ortopedica, dimostrando un impegno costante nell’adeguare le risorse umane alle esigenze sanitarie locali.

Queste iniziative illustrano un settore in continua trasformazione, che si dedica al miglioramento dell’accesso e della qualità delle cure ortopediche in Italia, enfatizzando un forte impegno verso l’innovazione e l’eccellenza nell’assistenza.

Distorsione alla caviglia: sintomi, valutazione e trattamento osteopatico

Quando ci si imbatte in una distorsione alla caviglia è importante, dopo il recupero, affrontare un percorso che consenta di recuperare appieno tutte le funzionalità della parte interessata.
È utile, in questo caso, affidarsi al trattamento osteopatico che permette di alleviare il dolore alla caviglia grazie ad interventi manipolativi specifici che consentono di migliorare la libertà di movimento.
Quando si prende una storta al piede di grado elevato, il primo intervento a cui affidarsi è necessariamente quello medico. Solo in una fase successiva sottoporsi ad alcune sedute di manipolazione osteopatica consente di evitare che il dolore caviglia diventi cronico, eliminando i fastidiosi disturbi che un incidente simile può provocare.
In questo articolo analizzeremo nel dettaglio questo tipo di problematica e come è possibile intervenire tramite l’osteopatia, così da capire come questo tipo di approccio possa rivelarsi un alleato molto valido nel caso di distorsione alla caviglia, soprattutto in chi soffre di cronicizzazione del fastidio.

Tutto quello che c’è da sapere sulla distorsione alla caviglia: come riconoscerla e i diversi gradi di gravità

Tra i traumi più comuni c’è, sicuramente, la distorsione alla caviglia. Questo tipo di incidente va a colpire il piede e le sue varie articolazioni.
Alcuni dati statistici evidenziano come questo tipo di problema venga causato, nell’84% dei casi, da movimenti eccessivamente bruschi verso la parte interna, fattore che porta a un’inversione del piede. Nella percentuale restante dei casi, invece, il piede si muove verso la parte esterna, movimento che provoca l’eversione del piede.
Quando ci si imbatte in tale problematica, le ossa e i legamenti che compongono il piede subiscono un movimento non fisiologico per poi, nella maggior parte dei casi, ritornare nella posizione normale.
Superare questo limite naturale provoca uno stiramento che colpisce la parte capsulo-legamentosa e, in casi estremamente gravi, lesioni articolari e fratture. Ad essere coinvolti nell’evento traumatico sono, quindi, tutti i componenti articolari ovvero ossa, legamenti, muscoli e tendini che fanno parte della caviglia.
Nelle casistiche in cui il piede va verso l’interno, ovvero quando avviene un’inversione, spesso si possono generare dei danni al legamento peroneo-astragalico posto nella parte anteriore. Queste lesioni possono essere sia totali che parziali.
Nei casi di eversione, con movimento verso la parte esterna, a patire le conseguenze peggiore può essere il legamento deltoideo che, solitamente, subisce uno stiramento.

Come riconoscere la gravità di una distorsione alla caviglia


Il dolore alla caviglia si concentra, quasi sempre, nella parte frontale e sotto il malleolo laterale, situato nella zona laterale del perone. Una delle conseguenze di questo tipo di lesione è la difficoltà nel deambulare, con i dolori che possono anche diventare cronici. A causa dei comparti legamentosi che tendono a restare lassi, ossia dotati di poca tensione, il movimento aumenta portando ad una condizione di ipermobilità e la stabilità articolare diminuisce.
Possiamo distinguere diversi livelli di gravità quando parliamo di distorsione alla caviglia, e sono i seguenti:

  • di primo grado, caso in cui il legamento della caviglia subisce un tipo di deformazione elastica. Si verifica, quindi, un allungamento che non provoca una lesione;
  • di secondo grado, livello che identifica le distorsioni in cui il legamento riceve una rottura parcellare che può verificarsi più volte;
  • di terzo grado, il caso più grave in cui avviene una rottura totale del sistema capsulo-legamentoso. È necessario intervenire tramite un’operazione chirurgica.

Analizzare le caratteristiche della distorsione alla caviglia e i diversi gradi di gravità serve a comprendere quale tipo di trattamento medico od osteopatico risulta essere più adatto al caso specifico. In questo modo, sarà più semplice capire come intervenire per risolvere la problematica.
Di seguito, vedremo nel dettaglio come un trattamento da parte di un osteopata possa migliorare le conseguenze che si generano da una distorsione alla caviglia, apportando notevoli benefici al paziente che potrà recuperare appieno le funzionalità della zona colpita dal trauma.

I benefici del trattamento osteopatico a supporto di una distorsione alla caviglia


Sottolineando subito che un primo approccio a una distorsione alla caviglia debba essere di tipo medico, tramite i dovuti accertamenti e gli esami che consentono di analizzare nel dettaglio la problematica e il grado di distorsione, successivamente è possibile rendere più efficace il recupero tramite l’osteopatia.
Questo tipo di intervento manipolativo è un valido alleato per superare il dolore che colpisce la caviglia oggetto dell’incidente. In questo settore si interviene, innanzitutto, attraverso un protocollo medico specifico conosciuto con il nome di PRICE, acronimo che sta per Protect, Rest, Ice, Compression, Elevation.

Il ruolo dell’osteopata nel trattamento della distorsione alla caviglia

Questo tipo di approccio serve a stabilizzare possibili edemi o gonfiori che potrebbero rendere meno efficaci e più complessi gli interventi manipolativi. Nel momento in cui può agire, l’osteopata punta a ricercare il movimento fisiologico dell’articolazione. Inoltre, uno degli obiettivi principali di questo professionista è quello di evitare che il fastidio e il dolore alla caviglia si cronicizzi, così da rendere più efficace il percorso verso il recupero totale della mobilità, senza imbattersi in riduzioni di flessibilità o in instabilità. L’osteopata, anche nel caso di distorsioni di caviglia, pone particolare attenzione anche alla tensione muscolare generata dalle cicatrici, quando esse dovessero provocare dolore durante attività di sforzo. Tramite l’intervento manipolativo, l’obiettivo in questo senso è quello di favorire quanto più possibile un buon scorrimento dei tessuti.
Affidarsi a un trattamento di osteopatia, come consiglia Luca Signorini, affermato osteopata a crema, dopo una distorsione alla caviglia, quindi aiuta, in associazione al trattamento medico a raggiungere e favorire il recupero, prevenendo nel tempo disagi e fastidi. Ovviamente, una volta gestita la parte acuta del trauma, l’obiettivo deve essere quello di recuperare confidenza nell’approcciare il movimento con esercizi specifici che dovranno essere dosati gradualmente nel tempo per ridare stabilità articolare e prevenire ricadute.
Se vuoi gestire una distorsione, contatta un osteopata esperto che, mediante un trattamento manipolativo non invasivo, ti consentirà di superare questo tipo di problematica e di non vivere situazioni di dolore croniche.

Come risolvere una lussazione della spalla

In caso di paziente con lussazione alla spalla, il personale medico deve essere pronto a intervenire per ridurre il dolore ed effettuare il corretto intervento di riposizionamento della testa dell’omero.

A seconda del tipo di lussazione diagnosticata, anteriore, posteriore, completa o parziale, gli operatori potranno trovarsi nella situazione di dover utilizzare antidolorifici o analgesici, nonché bende e altri strumenti atti a immobilizzare l’articolazione e accelerare la guarigione.

Tutta l’attrezzatura e gli strumenti utili per effettuare rapidamente il riposizionamento e l’immobilizzazione della spalla potranno essere acquistati presso un rivenditore specializzato come medicalcenteritalia.it, leader del settore dal 1974. Consultando il vasto catalogo online, il medico ha la possibilità di individuare rapidamente i prodotti di cui potrà avere bisogno presso lo studio medico, l’ambulatorio o l’ospedale, al fine di mettere in atto interventi mirati.

Lussazione della spalla: procedimento diagnostico

In molti casi, l’ortopedico è in grado di eseguire la diagnosi di lussazione tramite anamnesi, osservazione diretta del problema e palpazione dell’area danneggiata, senza bisogno di ricorrere ad attrezzature specialistiche.

In particolare, valuterà le caratteristiche con cui si manifesta il dolore, il tipo di trauma che lo ha generato, la mobilità articolare e la presenza di patologie osteo-articolari pregresse.

Laddove temesse la presenza di lesioni profonde che coinvolgano vasi sanguigni e nervi, in presenza di danni ad altre articolazioni o fratture ossee, nonché per classificare correttamente la tipologia di lussazione presente, il medico potrebbe altresì decidere di ricorrere a esami diagnostici per immagini, in particolare radiografia e risonanza magnetica.

In casi specifici, potrebbe essere inoltre richiesta l’esecuzione di una TAC.

I trattamenti per risolvere la lussazione alla spalla

Il trattamento d’elezione per la lussazione della spalla consta generalmente di due fasi:

  • il contenimento del dolore;
  • la sistemazione della testa dell’omero nella cavità glenoidea.

La terapia sintomatica prevede la somministrazione al paziente di farmaci antinfiammatori non steroidei e analgesici.

La seconda fase varierà in base alla tipologia e al livello di lussazione diagnosticata. Una lesione di Bankart derivante dal distacco o dalla mobilitazione del cercine glenoideo in seguito a trauma tenderà ad esempio a cicatrizzare autonomamente, ma in assenza di una manovra di riduzione effettuata da personale esperto, tenderà a recidivare, aumentando il danno articolare.

L’effettuazione della manovra di riduzione della lussazione della spalla deve essere effettuata entro un massimo di 48 ore dal verificarsi del trauma, così da garantire una corretta ripresa della mobilità articolare e limitare il rischio di complicazioni derivanti da danni secondari a nervi e strutture vascolari.

Quando è necessario mettere in atto pratiche dolorose, ma anche per limitare gli spasmi muscolari e aiutare i pazienti a rilassarsi, il medico può decidere di ricorrere ad analgesia procedurale o a sedazione.

Laddove radiografia e risonanza magnetica avessero portato al rilevamento di danni profondi o complicazioni quali fratture ed emorragie, il paziente dovrebbe essere sottoposto a intervento chirurgico effettuato con tecnica tradizionale o in artroscopia. Nel corso dell’operazione potrebbe essere necessario applicare placche o viti per migliorare la stabilità articolare e ridurre il rischio di ricadute.

Le principali tecniche di riduzione delle lussazioni alla spalla

Le manovre di riduzione delle lussazioni che interessano la spalla sfruttano principalmente la rotazione esterna e la trazione di tipo assiale. La scelta della tecnica più adatta dipende dalla diagnosi e dallo stato in cui si presenta il paziente; per questo motivo il medico dovrebbe avere dimestichezza con più tecniche.

Tra le più sicure e utilizzare per il trattamento delle lussazioni che interessano la spalla anteriore rientrano:

  • l’autoriduzione di Davos;
  • la tecnica FARES;
  • la tecnica di Stimson;
  • la manipolazione scapolare;
  • la rotazione esterna;
  • la trazione-controtrazione.

Lussazioni posteriori e inferiori vengono invece trattate generalmente con la sola trazione-controtrazione.

In tutti i casi, il trattamento deve essere eseguito il prima possibile, entro una trentina di minuti dalla diagnosi.

Immobilizzazione della spalla e post-operatorio

Al termine del trattamento di riduzione della lussazione, il medico deve provvedere a bloccare l’articolazione al fine di:

  • evitare la fuoriuscita della testa dell’omero;
  • ridurre il rischio di ulteriori traumi;
  • favorire il processo di guarigione.

A tal fine, potranno essere utilizzati bendaggio elastico e tutore per spalla, i quali dovranno essere mantenuti in posizione per circa venti giorni o a discrezione del medico curante.

Strumenti e accessori per lussazioni alla spalla

La lussazione alla spalla è un evento comune e richiede un intervento immediato. Per poter intervenire prontamente, il medico deve avere a disposizione tutto l’occorrente per:

  • effettuare una diagnosi immediatamente;
  • ridurre il dolore e, se necessario, sedare il paziente;
  • curare eventuali ferite;
  • effettuare la manovra di riduzione più adeguata;
  • intervenire a livello chirurgico;
  • immobilizzare l’articolazione.

Risultano dunque indispensabili, oltre alle strumentazioni per la diagnostica per immagini, disinfettanti, kit per suture, bendaggi elastici, tutori e strumentazioni chirurgiche. Tutti gli strumenti e i prodotti devono essere di elevata qualità e garantire un utilizzo sicuro per la salute del paziente.

Frattura di colles: cos’è, diagnosi e cura

Il radio è una delle due ossa che compongono la struttura scheletrica dell’avambraccio. La lesione dell’estremità distale, ovvero della sezione più vicina alla mano, è definita frattura di Colles e comporta un’impossibilità di movimento dell’articolazione del polso.

Diverse sono le cause che influiscono su questa condizione e quindi le cure a cui si ricorre per la risoluzione ottimale della frattura di Colles al fine di riportare la struttura ossea nella corretta funzione. Sulla base della diagnosi il medico ortopedico sceglierà la terapia e la cura più idonea.

Per comprendere meglio la frattura di Colles è necessario dedicare la giusta attenzione alla stessa.

Frattura di Colles: cos’è

Frattura di Colles è così definita in onore del chirurgo irlandese Abraham Colles che, nel 1814, individuò per primo questo tipo di infortunio osseo senza avvalersi della radiografia, all’epoca non ancora disponibile.

Ad oggi, quando si parla di frattura di Colles, si identificano tutte le fratture relative all’estremità distale del radio. Questo osso costituisce con l’ulna lo scheletro dell’avambraccio. La frattura in questione comprende tutte le lesioni di quello definito polso, ovvero quella comprensiva del carpo scafoide e semilunare.

Questa lesione è conosciuta anche con altri nomi tecnici, quali frattura trasversa del polso, frattura del radio distale, frattura “a baionetta” e frattura “a dorso di forchetta”. È caratterizzata da un dolore persistente che impedisce a chi ne è colpito di afferrare oggetti senza avvertire un dolore. Può inoltre presentarsi anche un gonfiore e un’ecchimosi nella zona interessata.

Le cause della frattura

Le cause che possono provocare la cosiddetta frattura di Colles sono molteplici, complice la sensibilità delle ossa interessate dalla stessa. Una delle più frequenti è il trauma provocato da una caduta accidentale in seguito alla quale il paziente ha provato a proteggersi sporgendo le mani in avanti per evitare l’impatto.

È fondamentale comprendere che non è la semplice caduta a provocare la lesione, in quanto questa può essere aggravata da numerosi fattori, biologici e no, che comportano un indebolimento della struttura ossea. La frattura di Colles può infatti essere aggravata dall’età avanzata o troppo giovanile, due porzioni di tempo in cui le ossa sono più deboli e quindi più soggette a fratture, ma anche dall’osteoporosi, una malattia del sistema scheletrico che comporta un indebolimento dello stesso. Anche la pratica sportiva di determinate discipline aumenta il rischio di possibilità di frattura di Colles in quanto è più probabile rischiare una caduta in avanti. Anche la carenza di vitamina D e di calcio all’interno dell’organismo può provocare una fragilità ossea che comporta una tendenza alle fratture.

La diagnosi e la cura della frattura di Colles

Se in seguito ad una caduta si verifica una situazione di dolore e gonfiore in prossimità del polso è indicato procedere con una diagnosi accurata finalizzata all’identificazione della frattura di Colles. Questa, con i moderni mezzi ospedalieri a nostra disposizione, può facilmente essere individuata in seguito ad una radiografia a raggi X.

Accertata la presenza della frattura, si procede secondo la gravità della stessa optando per la terapia conservativa o chirurgica. La prima è adottata in casi di frattura di Colles di non grave entità e che quindi non comportano una lesione scomposta o leggermente tale delle ossa e che quindi può essere risolta con una piccola manipolazione. In questo caso si procede con l’immobilizzazione attraverso l’ingessatura tra mano e avambraccio al fine di impedire al paziente movimenti che potrebbero peggiorare la sua condizione.

Il trattamento chirurgico è invece adottato in casi di lesione gravi, ovvero quando la frattura è molto scomposta e richiede un intervento più delicato per il corretto riposizionamento delle ossa, anche supportato dall’adozione di placche o viti. In seguito a questo si utilizza il gesso per immobilizzare il polso.

In entrambi i casi si necessita di una successiva riabilitazione fisioterapica per recuperare la corretta funzione anche muscolare.

Frattura ulna e radio: trauma osseo negli adulti e nei bambini

Nel nostro precedente articolo abbiamo approfondito il tema riguardante la frattura all’epifisi distale del radio, sottolineando come questa sia una problematica che si verifica maggiormente nei soggetti giovani che svolgono sport e negli anziani.

Questo è un tipo di infortunio che implica la rottura di una, o entrambe le ossa dell’avambraccio a livello del polso.

L’avambraccio è formato da due ossa, il radio e l’ulna. Se si rivolge il palmo della mano verso l’alto, l’ulna è l’osso più interno dell’avambraccio e forma un’articolazione con l’omero a livello del gomito mentre, a livello del polso, si articola con otto piccole ossa del carpo.

Parliamo di frattura di Colles in riferimento alla frattura della epifisi distale del radio, con associato il distacco della stiloide ulnare, che si verifica in seguito ad una violente caduta a braccio esteso sul palmo della mano, provocando la rottura dell’osso del polso.

In caso di forte caduta, se la resistenza scaricata supera la resistenza elastica dell’osso, potrebbe verificarsi una frattura.

Questo tipo di trauma si verifica spesso insieme ad altre lesioni come ad esempio distorsione o lussazione del polso o del gomito.

È possibile classificare la frattura dell’ulna e radio in:

  • Frattura composta: in questo caso lo spostamento dei frammenti ossei è minore del 30%, quindi le ossa mantengono il loro originale allineamento anatomico. Sarà necessario l’utilizzo di un tutore o l’applicazione del gesso nella zona interessata.
  • Frattura scomposta: qui lo spostamento dei frammenti ossei è maggiore del 30% o va oltre i 10-15° di angolazione. In questa circostanza, lo specialista valuterà se risolvere con un intervento chirurgico.

Gli anziani (generalmente dai 60 anni in sù) sono più esposti a frattura ad ulna e radio in quanto la loro struttura ossea è più debole ed è quindi più facile che subiscano traumi da caduta.

Sintomi e conseguenze

Uno dei principali sintomi legati ad una frattura ad ulna e radio è il dolore forte al polso o all’avambraccio nel momento stesso della caduta. I sintomi potrebbero stabilizzarsi rapidamente e il dolore potrebbe intensificarsi durante la notte o al mattino appena svegli.

Oltre all’inteso fastidio, la zona interessata potrebbe anche gonfiarsi.

In caso di grave trauma, come ad esempio lo spostamento osseo, il paziente potrà notare una deformità nella regione in questione.

Alcune conseguenze possono essere:

  • La sindrome del tunnel carpale;
  • La perdita di forza e sensibilità al pollice, indice e medio;
  • Artrosi a livello del polso;
  • Rottura di un tendine;
  • Rigidità del polso e della dita;
  • Morbo di SUdeck;
  • Algodistrofia.

I tempi di recupero dopo una frattura ad ulna e radio dipendono dalla gravità del trauma stesso, dall’età del paziente e dalle terapie che si effettuano. Mediamente, in un soggetto giovane il periodo di ripresa può essere di 2/3 mesi mentre in un soggetto di età avanzata può essere di 5/6 mesi.

Frattura scomposta del radio e ulna nei bambini

Questo tipo di frattura è molto frequente nei bambini e rappresenta circa il 40% delle fratture in età infantile.

La rottura sia dell’ulna che del radio, viene definita frattura biossea dell’avambraccio.

La frattura radio e ulna nei bambini ha caratteristiche differenti rispetto a quella nell’adulto in quanto le ossa e la cartilagine in età infantile sono in fase di crescita.

Ai bambini può essere diagnosticata una frattura a legno verde che consiste nella lesione della parte interna dell’osso ma il periostio rimane intatto.

Le fratture nei bambini subiscono un naturale rimodellamento nel tempo (al contrario dell’adulto) e questo comporta una spontanea correzione di alcune deviazioni residue durante il periodo della maturazione scheletrica.

Spesso la consapevolezza della rapida guarigione della frattura nel bambino, può portare a sottovalutare la reale gravità del trauma subito.

La terapia è quasi sempre di tipo conservativa e prevede l’implementazione dell’apparecchio gessato per circa 3-4 settimane.

I tempi di recupero variano da individuo ad individuo e qualunque tipo di attività fisica dovrà essere ripresa con cautela e progressivamente.

Frattura del piede: sintomi, diagnosi e cura

Il piede possiede 26 ossa ed è diviso in tre regioni:

  • Tarso (regione posteriore);
  • Metatarso (regione intermedia);
  • Falange (le ossa delle dita).

Il piede, inoltre, è composto da una complessa struttura fatta di legamenti e tendini e qualsiasi lesione che coinvolga parta di questa struttura, può intaccare il movimento del piede e determinare deformità e difficoltà nello svolgere semplici azioni quotidiane. 

I traumi a cui può essere sottoposto il piede sono diversi e diverse possono essere le cause. 

Nel coinvolgimento di una o più ossa, possiamo distinguere diverse tipologie di fratture che possono essere composte (le due parti di osso restano nella loro naturale sede anatomica) o scomposte (i segmenti ossei sono fuori posto rispetto alla loro naturale sede e non sono più allineati).

Le fratture più frequenti sono quella del metatarso e dello scafoide (frattura collo del piede), mentre la meno grave (microfrattura al piede) è quella delle falangi perchè di facile ricomposizione. 

Invece, tra le fratture più complesse troviamo quelle all’astragalo (osso che collega calcagno e tibia-perone) e del calcagno. 

Cause e sintomi della rottura del piede

Ma quali sono le cause più frequenti relative alla frattura del piede?

  • Incidenti;
  • Traumi sportivi;
  • Cadute
  • Stress causato da usura e movimenti ripetitivi;
  • Osteoporosi che causa fragilità alle ossa con conseguenti lesioni senza particolari traumi. 

A seconda del punto di lesione, i sintomi generici possono essere:

  • Difficoltà nel reggersi in piedi;
  • Gonfiore nella zona interessata;
  • Comparsa di ematoma;
  • Dolore inteso;
  • Fuoriuscita dell’osso.

Se uno o più sintomi dovessero presentarsi in seguito ad un trauma, è importante recarsi il prima possibile da un ortopedico specialista per potersi sottoporre ad un trattamento adeguato.

Nella maggior parte dei casi, ci si dovrà sottoporre ad una radiografia che consente di visionare la presenza di fratture e di individuarne la sede. In altri casi è necessario effettuare ulteriori esami come la Tac o la risonanza magnetica.

Trattamenti frattura del piede

A seguito della frattura al piede, la prima cosa da fare è applicare del ghiaccio ed immobilizzare la zona affinché il dolore possa ridursi. In alternativa si può assumere un antidolorifico.

Per determinate tipologie di fratture, si dovrà ricorrere al gesso per immobilizzare la zona d’interesse.

In casi estremi è necessario sottoporsi ad un intervento chirurgico, il cui scopo è quello di ricomporre i frammenti e saldare con viti metalliche, perni o piastre che saranno poi rimosse dopo la fase di guarigione.

Fondamentale sarà la riabilitazione fisioterapica in quanto aiuterà a ristabilire la giusta configurazione dei movimenti e a rinforzare la struttura muscolare.

Schiacciamento vertebre: cause, sintomi ed esercizi utili

Schiacciamento delle vertebre: cosa si intende?

Lo schiacciamento delle vertebre (o sciatica) è connesso anche alla deformazione vertebrale e quindi alla scoliosi, patologia che può presentarsi sia in età infantile che in età avanzata. Puoi approfondire questo argomento leggendo il nostro articolo sulla deformazione vertebrale.

Prima di parlare dell’argomento principale, è necessario analizzare alcuni concetti basici di anatomia per poter comprendere a pieno la patologia in questione.

La colonna vertebrale (anche definita rachide o spina dorsale) è la struttura portante del nostro corpo, incaricata di sorreggerlo.

La nostra spina dorsale è composta da 33 vertebre e sono a loro volta suddivise in 5 aree:

  • 7 vertebre nella zona cervicale (le vertebre vanno dalla C1 alle C7) ;
  • 12 vertebre nella zona dorsale (le vertebre vanno dalla T1 alla T12);
  • 5 vertebre nella zona lombare (le vertebre vanno dalla L1 alla L5);
  • 5 vertebre nella zona sacrale (le vertebre vanno dalla S1 alla S5);
  • 4  vertebre nella zona del coccige (le vertebre vanno dalla Co1 alla Co4).

Tra una vertebra e l’altra (tranne per quelle sacrali e coccigee) ci sono i dischi intervertebrali, fondamentali per il benessere della colonna in quanto ammortizzano la pressione a cui quotidianamente è sottoposta e le conferiscono mobilità.

Le possibile cause di vertebre accavallate possono essere:

  • Traumi alla colonna vertebrale dovuti, ad esempio, ad incidenti automobilistici o sportivi;
  • Osteoporosi;
  • Artrosi;
  • Postura scorretta;
  • Eccessivi sforzi.

I possibili sintomi delle vertebre schiacciate:

  • Debolezza e dolore nella zona interessata che può aumentare anche durante semplici movimenti;
  • Formicolio alle gambe;
  • Spasmi muscolari;
  • Mobilità limitata

Schiacciamento vertebre lombari e schiacciamento vertebre cervicali.

La zona lombare e cervicale subiscono lo schiacciamento in maniera analoga, ciò che le differenzia sono i sintomi.

Per le vertebre cervicali, il sintomo rilevato riguarderà la zona cervicale soggetta a dolori anche svolgendo semplici movimenti quotidiani. È possibile avvertire dolore anche al braccio.

Lo schiacciamento delle vertebre lombari si verifica in seguito ad una frattura dovuta alla compressione di una vertebra in seguito ad un trauma specifico. L’avvicinamento di due o più vertebre prevede lo schiacciamento dei dischi intervertebrali.

Il disco intervertebrale compreso tra le vertebre l5 e s1 insieme a quello posto tra l4 e l5, sono i più colpiti da un processo di degenerazione. Questo è dovuto al fatto che si trovano nella zona più bassa della schiena e risentono maggiormente delle forze verticali. 

In caso di vertebre l4 l5 schiacciate, parliamo di discopatia ovvero un processo di degenerazione a carico del disco intervertebrale interposto tra la quarta e la quinta vertebra lombare. Questo disturbo è meno frequente rispetto alla discopatia l5 s1 (che riguarda la quinta vertebra lombare e la prima sacrale), nonostante siano patologie molto simili.

I sintomi dello schiacciamento delle vertebre l5 s1 sono dolore lombare, rigidità della zona lombare, dolore nei movimenti di flessione, estensione, torsione o inclinazione.  

Le generiche conseguenze dello schiacciamento delle vertebre lombari sono: dolore a livello lombare, limitata mobilità, tensione muscolare.

A seconda del caso, uno specialista riuscirà a definire la giusta soluzione volta alla risoluzione del problema.

Esercizi per lo schiacciamento delle vertebre lombari: come alleviare i dolori

Ridurre la rigidità e migliorare la prestazione muscolare, sono gli obiettivi da raggiungere per attenuare i dolori e migliorare la condizione del paziente.

In uno stato primordiale, si possono eseguire alcuni esercizi mirati:

  • Allungamento della catena posteriore: riduce la rigidità dei muscoli posteriori;
  • Allungamento dell’ipsoas: se l’ileo ipsoas è eccessivamente contratto, rischia di aumentare la forze di compressione sulla colonna vertebrale;
  • Rinforzo dell’addome: i muscoli addominali sono fondamentali per stabilizzare la colonna.

Vertebra schiacciata cosa fare?

La cura per vertebre schiacciate è mirata o a conservarla, limitando ogni tipo di peggioramento, o ad un trattamento definitivo chirurgico.

Quando possibile, il medico specialista potrà prescriverti farmaci antidolorifici e/o infiammatori da assumere per un periodo limitato.

Un’altra soluzione può essere quella di utilizzare un busto ortopedico.

Generalmente, anche diverse sedute di fisioterapia possono apportare benefici a lungo termine grazie ad esercizi mirati e alla rieducazione postulare.

In caso di paziente soggetto a rottura di dischi intervertebrali o a fratture vertebrali, l’intervento sembra essere l’unica soluzione efficace.

Uno specialista in ortopedia o traumatologia potrà seguire il soggetto nel percorso diagnostico e terapeutico.

Cifosi: patologica curvatura della colonna vertebrale

In un nostro precedente articolo abbiamo parlato di deformazione vertebrale e di come poter correggere in parte la scoliosi. Ora tratteremo il tema della cifosi, una curvatura fisiologica della colonna vertebrale che può diventare patologica.

Il  termine “cifosi” indica la curvatura in avanti della colonna vertebrale che, se è eccessivamente accentuata, viene definita “ipercifosi”, una curvatura patologica.

Le curve della colonna vertebrale aiutano a mantenere in equilibrio il peso del corpo e a conferirne flessibilità.

Affinché la cifosi resti una condizione “normale” deve rispettare un limite che va dai 20° ai 45°. Superati i 60°, si parla di ipercifosi.

L’ipercifosi può peggiorare altre problematiche posturali come, ad esempio, l’iperlordosi o la scoliosi. Per questo, è importante che ogni caso venga trattato da un ortopedico o da un fisioterapeuta specialista che sarà in grado di valutare la situazione a seconda delle caratteristiche del paziente.

L’origine più comune di questa deformazione è da ritrovare nella postura, specialmente negli adolescenti, e in questo caso si tratta di un atteggiamento cifotico (un difetto posturale) e non della patologia vera e propria.

È possibile effettuare una diversificazione delle diverse tipologie di cifosi:

  • Cifosi cervicale;
  • Cifosi dorsale;
  • Cifosi toracica;
  • Cifosi lombare

Quali sono i sintomi della cifosi?

Il principale sintomo visivo è l’inarcamento della colonna; la schiena acquisisce una posizione gobba e, nei casi più gravi, il collo, le spalle e la testa sono molto inclinati in avanti.

L’ipercifosi può causare anche:

  • Dolore alla schiena, specialmente nella zona superiore;
  • Difficoltà respiratorie;
  • Frequente formicolio alle braccia e alle gambe.

Questa condizione può peggiorare con l’avanzamento dell’età, soprattutto se non viene effettuato alcun tipo di trattamento.

Quali sono le cause?

Questa anomalia può nascere in seguito ad un indebolimento delle ossa spinali dovuto, ad esempio, all’osteoporosi.

Quest’ultimo è una malattia metabolica ossea che si caratterizza per il progressivo deterioramento della struttura del tessuto osseo.

Ne consegue la fragilità del sistema scheletrico che, anche in seguito a lievi traumi, può subire fratture profonde.

Altre possibili cause possono essere:

  • Morbo di Scheuermann: la causa più frequente di cifosi non postulare. Questa patologia è rappresentata da alterazioni di alcune vertebre dorsali che causano un disallinaemento della colonna vertebrale;
  • Cifosi congenita: si tratta di una naturale malformazione delle vertebre fin dalla nascita;
  • Post trauma: ci riferiamo a fratture che portano all’appiattimento delle vertebre;
  • Processi degenerativi: come, ad esempio, l’osteoporosi o l’artrosi:
  • Dolori  neuromuscolari: si tratta di cause più rare che derivano ad esempio da una paralisi cerebrale, distrofie muscolari, mielomeningocele e così via;
  • Stress e/o depressione.

La cifosi dorsale

Si parla di cifosi dorsale quando il paziente presenta una curvatura superiore ai 45° della scala Cobb.

I sintomi della cifosi dorsale possono essere i seguenti:

  • Dolore alla schiena;
  • Debolezza muscolare;
  • Formicolio agli arti inferiori e/o del tronco;
  • Rigidità della colonna vertebrale.

In particolare modo, i sintomi della cifosi dorsale si manifestano in maniera visibile attraverso le spalle che gradualmente si sporgono in avanti fino a mantenere fissa questa inclinazione.

La cifosi rigida si presenta quando il tratto dorsale perde la sua mobilità, in modo specifico in estensione. Ciò comporta:

  • Limitazione del movimento nel tratto dorsale;
  • Possibili contratture muscolari;
  • Sovraccarico delle vertebre lombari e cervicali, che si trovano nella situazione di dover compensare il movimento ridotto della zona dorsale).

La cifosi cervicale

Il collo è caratterizzato da una leggera curvatura in avanti, definita lordosi cervicale. Quest’ultima è la fisiologica curvatura che può essere più o meno accentuata, a seconda del soggetto di riferimento.

In alcuni soggetti le vertebre del collo tendono all’indietro piuttosto che in avanti e questo è il tipico caso di cifosi cervicale.

Se la problematica non è ad un livello avanzato, parliamo semplicemente di una tendenza alla cifosi cervicale.

Quest’ultima non reca gravi dolori o sintomi, si tratta di un atteggiamento posturale che posseggono le vertebre. A dimostrazioni di questo, è stato riscontrato che molte persone hanno una cifosi cervicale ma non ne sono a piena conoscenza.

I sintomi della cifosi cervicale possono essere:

  • Tensione muscolare;
  • Disturbi visivi che prescindono dalla vista;
  • Senso di pesantezza alla testa;
  • Rigidità al collo;
  • Difficolta di concentrazione e/o vergini.

Come curare la cifosi?

La cura per la cifosi varia a seconda del livello di gravità che caratterizza il paziente. 

Nel caso del dorso curvo, nella fase primordiale si consiglia un trattamento di rieducazione posturale, per rinforzare la colonna vertebrale.

Potremmo dire che la rieduzionazione postulare è consigliata in tutti i casi in quanto, oltre a controllare il dolore causato dalla cifosi, migliora l’equilibrio e l’armonia del proprio corpo.

L’attività fisica è un ausilio importante per il paziente colpito da una lieve cifosi. In questo caso, l’obiettivo principale è di rinforzare la muscolatura della schiena e degli addominali, rendendo più flessibile la colonna vertebrale. Questi fattori sono fondamentali per migliorare la postura.

Rinforzare i muscoli della colonna, aiutano a prevenire lesioni ed instabilità delle vertebre.

Per i casi di media gravità, sono indicati i trattamenti di fisioterapia che aiutano a riallineare la colonna.

Nel caso di un livello più avanzato di cifosi, sarà necessario l’uso di un corsetto ortopedico su sottoscrizione medica.

La durata dell’utilizzo deve essere stabilita da uno specialista in seguito ad un’accurata analisi del paziente. Generalmente, si consiglia di indossarlo circa 20 ore al giorno.

Il corsetto non eliminerà alla radice il problema, ma è un modo per contenerlo, impedendo ulteriori aggravamenti. Questa soluzione è adatta sopratutto ai soggetti che sono ancora in fase di crescita, in quanto in questo periodo la curvatura tende a peggiorare.

In caso di curvatura più pronunciata, nello specifico superiore ai 60 gradi, bisogna ricorrere alla chirurgia.Tendenzialmente, questa soluzione viene suggerita ai pazienti anziani o affetti da cifosi congenita.

Le possibili tecniche utilizzabili sono varie e vengono selezionate in base alla situazione del paziente.

La cifosi è una patologia grave, per questo trattarla e curarla è indispensabile per la tua salute!

Se dovessi avvertire uno dei sintomi descritti in questo articolo, consulta un ortopedico specialista per sottoporti ad una diagnosi accurata.

Borsite del calcagno: cause, sintomi e cura

La borsite del calcagno è un’infiammazione che colpisce il tallone, nota anche come borsite del tallone o borsite retrocalcaneare.

Abbiamo già parlato in precedenza del tallone, in particolare della frattura del tallone e di tutto ciò che ne consegue in termini di sintomi, cause e trattamento.

Oggi ci occupiamo di un altro fenomeno che colpisce il tallone: la borsite.

Borsite calcagno cos’è

La borsite calcaneare consiste in un fenomeno infiammatorio a carico della borsa sierosa situata tra il tendine d’Achille e il calcagno, ossia l’osso del tallone.

Si tratta di una patologia che, seppur benigna, può essere fortemente invalidante per chi ne soffre.

Infatti, questa infiammazione si manifesta con un dolore molto intenso e il calcagno gonfio e arrossato.

Inoltre, le borsiti del calcagno possono presentarsi insieme ad altre patologie, come il morbo di Haglund, il piede cavo o la spina calcaneare.

I soggetti che ne vengono più facilmente colpiti sono coloro che utilizzano scarpe scomode o inadatte al proprio piede o plantari troppo alti.

Borsite del calcagno cause

La borsite al tallone può essere la conseguenza di una serie di fattori anatomici, anche congiunti, quali:

  • la spina calcaneare, ossia una neoformazione ossea benigna, che si sviluppa nella zona inferiore del tallone; in genere, questa tende a formarsi nella parte mediale del calcagno e colpisce i soggetti dai 40 anni in su;
  • il morbo di Haglund, il quale consiste in un’infiammazione dolorosa del tallone e che può derivare da un’eccessiva prominenza della zona posteriore del calcagno, dove si innesta il tendine d’Achille;
  • il piede cavo, cioè una malformazione della volta della pianta del piede, che può essere congenita o acquisita.

Altre cause di tipo esterno e non anatomico possono essere:

  • l’utilizzo di scarpe non adatte;
  • l’utilizzo di calzature o plantari troppo alti, che alzare in modo eccessivo il tallone;
  • allenamenti troppo intensi.

Borsite calcagno sintomi

La borsite del calcagno si caratterizza per avere una sintomatologia molto specifica, la quale peggiora con l’avanzare dell’infiammazione.

I sintomi che si manifestano in presenza di una borsite sono:

  • un dolore intenso durante la camminata, quando si muove la caviglia o quando si preme sul calcagno;
  • sensazione di gonfiore nella zona del calcagno;
  • arrossamento del calcagno e sensazione di calore.

La diagnosi di borsite avviene attraverso l’analisi dei sintomi e l’esame obiettivo.

In genere, si provvede all’esecuzione di esami strumentali, come ecografia e radiografia, in modo da evitare che possa essere confusa con altre patologie, come tendinosi del piede e infiammazione del tendine d’Achille.

Borsite del calcagno cura

Per individuare la cura più indicata per la borsite, bisogna individuarne la causa scatenante.

Consigliamo una soletta che consente di scaricare la tensione muscolare con conseguente riduzione del dolore

Se questa consiste in elementi esterni e non anatomici, come l’utilizzo di scarpe inadatte, allora si consiglia:

  • l’utilizzo di scarpe ortopediche apposite per le patologie del tallone, che di solito riportano un’apertura nella zona posteriore della calzatura;
  • il ricorso a gel e a farmaci antinfiammatori;
  • l’applicazione di ghiaccio, per aiutare a ridurre il gonfiore; 
  • assoluto riposo, in modo da evitare di premere sul calcagno e aggravare l’infiammazione.

Quando la patologia è particolarmente accentuata, allora può essere necessario ricorrere a terapie specifiche, come:

  • mesoterapia;
  • infiltrazioni;
  • intervento di rimozione della borsa.