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Autore: Ortopedico Italia

Frattura ischio pubica: guida completa

La frattura ischio pubica può interessare una o più ossa del bacino e possono essere causa di un forte dolore anche in posizione seduta o distesa.

All’interno della categoria delle fratture pelviche si trovano fratture che presentano il distacco di un piccolo frammento osseo, fratture causate da forze lesive minime e fratture come conseguenza di forze lesive di maggiore intensità.

Frattura ischio pubica nell’anziano

Il classico caso di una frattura in conseguenza di una forza lesiva minima è la frattura pelvica in un soggetto anziano, molto spesso affetto anche da osteoporosi.

Quando si parla di forze lesive di alta intensità, , invece, si fa riferimento ad incidenti stradali o a traumi significativi.

Il bacino è situato nella parte inferiore del tronco e si compone di tre ossa:

  • ileo, ossia l’osso superiore e di maggiore grandezza del bacino, che si colloca nella parte posteriore;
  • pube, ossia l’osso centrale del bacino, che si colloca nella parte anteriore;
  • ischio, ossia l’osso inferiore del bacino, che si colloca nella parte posteriore.

Queste ossa formano una cavità all’interno della quale si inserisce l’estremità superiore del femore, con il quale formano l’articolazione dell’anca. Inoltre, il bacino si collega alla parte inferiore della colonna vertebrale tramite l’osso sacro.

Dunque, le fratture pelviche possono verificarsi nelle ossa iliache, pubiche o ischiatiche.

Frattura ischio pubica sintomi

In seguito ad una frattura del bacino, si riscontra un forte dolore all’inguine, anche in posizione distesa o seduta, il quale aumenta quando si prova a camminare.

Inoltre, nella zona, si individuano gonfiore e segni di contusione.

Se vi sono lesioni anche ad altre strutture, vi sono ulteriori sintomi, come sangue nelle urine, difficoltà nella minzione, incontinenza o sanguinamento da retto o vagina.

Le fratture pelviche più gravi possono comportare shock o emorragie anche letali o accompagnarsi a lesioni gravi anche ad altri organi.

Le fratture in cui vi sia stato danneggiamento anche della cavità articolare dell’anca, invece, comportano un’invalidità permanente.

Frattura branca ischio pubica cura

FRATTURA ISCHIO PUBE

In caso di sospetto di una frattura ischio pubica, è consigliato recarsi subito al pronto soccorso, dove verrà condotto un esame obiettivo per verificare l’eventuale presenza di altre lesioni e procedere ad ulteriori esami.

Tramite radiografia, è possibile individuare la maggior parte delle fratture pelviche.

Nella maggior parte dei casi, però, ad essa viene abbinata una tomografia computerizzata, tramite la quale è possibile individuare i diversi frammenti delle ossa fratturate e verificare la presenza di altre lesioni.

Inoltre, per accertarsi dell’assenza di lesioni alle vie urinarie, il medico procede ad esame obiettivo con esame neurologico, esplorazione rettale digitale, esame delle urine ed esame pelvico per le donne.

In caso di sospetto di lesione alle vie urinarie, si procede a tomografia computerizzata o ad altri esami di diagnostica per immagini per le vie urinarie.

Frattura branca ischio pubica trattamento

Quando si ha a che fare con una frattura ischio pubica di lieve entità, è sufficiente una terapia farmacologica a base di antidolorifici e l’esecuzione di movimenti leggeri.

Nel caso di fratture più importanti, invece, è necessario procedere a stabilizzazione e immobilizzazione del bacino con dispositivo esterno o con placche e viti inserite tramite intervento chirurgico.

Frattura branca ischio pubica riabilitazione

Per favorire un recupero graduale e duraturo, i medici consigliano di seguire un programma di riabilitazione e di fisioterapia adeguata, da abbinare ad una cura farmacologica per prevenire la formazione di coaguli sanguigni.

Fondamentale è il movimento periodico delle gambe, ma evitando in modo assoluto di sovraccaricare le ossa del bacino.

Frattura ischio pubica guarigione

Le fratture ischio pubiche stabili hanno una prognosi migliore rispetto alle fratture del bacino instabili: in entrambi i casi, si parla comunque di qualche mese per un recupero pieno.

Infatti, le fratture stabili presentano tempi di recupero inferiori e, in loro presenza, i pazienti rispondono in modo migliore ai trattamenti.

Inoltre, ulteriore elemento che depone nel senso di una prognosi migliore sta nel fatto che, per il loro trattamento, si può procedere anche con cure non invasive.

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Frattura tallone: una guida avanzata

La frattura del tallone è quella che interessa il calcagno, ossia l’osso del tallone, che si colloca nella parte posteriore del piede, ed è detta anche frattura calcaneare.

In genere, una frattura al tallone deriva da un trauma lesivo intenso: per questa ragione, difficilmente ci si troverà dinanzi ad una sola frattura del tallone, ma questa sarà, anzi, accompagnata spesso da lesioni a carico della colonna vertebrale o del ginocchio.

Un esempio può essere il caso di lesioni dovute ad attività sportiva, di incidenti stradali o di un soggetto che atterra sui piedi in conseguenza di una caduta da un’altezza considerevole.

Si pensi che, nel diciottesimo secolo, tale frattura era conosciuta anche come “frattura amante tallone” o frattura dell’amante, perché era l’infortunio più frequente negli amanti, i quali saltavano da finestre o balconi per scappare e non esser colti sul fatto.

Inoltre, alcune fratture calcaneari possono interessare anche l’articolazione e comportare una lesione alla cartilagine: è il caso di una frattura multipla tallone.

Altre fratture del calcagno possono essere anche fratture da stress, ossia fissurazioni dell’osso conseguenti a ripetute sollecitazioni della zona, in particolare ciò può accadere negli atleti come i corridori di fondo.

È possibile dire che questo tipo di fratture costituisce una parte minima delle fratture; tuttavia, può essere causa di problemi permanenti se non sono diagnosticate e trattate in modo adeguato.

Frattura tallone sintomi

Nei casi di frattura, il primo sintomo è quello di dolore al tallone al momento della palpazione.

Inoltre, piede e caviglia risultano visibilmente gonfi e possono essere contusi.

Come conseguenza del dolore, il paziente riporta impossibilità di porre carico su piede, tallone e caviglia.

Ulteriore conseguenza della frattura può essere lo sviluppo della sindrome compartimentale: ciò avviene quando il gonfiore preme sui vasi sanguigni vicini, interrompendo o riducendo così il flusso ematico e danneggiando i tessuti privi di sangue.

Frattura al tallone terapia conservativa

frattura del calcagno

Per la diagnosi di frattura al calcagno, i medici si basano in primis sui risultati delle radiografie, mentre, in casi più particolari, richiede l’esecuzione di una tomografia computerizzata.

Quest’ultima unisce la radiografia e la tecnologia informatica, dando in questo modo un’immagine tridimensionale della zona lesionata.

Il trattamento iniziale di una frattura calcaneare può essere di tipo conservativo con il ricorso ad un tutore, il rispetto di un periodo di riposo, l’applicazione del ghiaccio e la compressione e il sollevamento dell’arto.

In seguito, può essere necessario ricorrere ad ingessatura o a intervento chirurgico per favorire il riposizionamento dei frammenti ossei e per contribuire a mantenerli in sede, soprattutto quando si tratta di una frattura scomposta tallone.

Nei casi in cui il tipo di frattura lo richieda, può essere necessario sottoporre il paziente a intervento chirurgico.

Frattura tallone riabilitazione

Per superare al meglio una frattura del tallone, è necessario seguire un trattamento fisioterapico adeguato.

In primis, viene istruito il paziente a non caricare il calcagno fino a completa guarigione della frattura.

Il tempo di guarigione dipende dal tipo di lesione, ma possono volerci anche diversi mesi.

In considerazione del tipo di frattura, il medico può incoraggiare il paziente ad effettuare qualche primo movimento di piede e caviglia e a caricare la caviglia, ma senza arrivare a sentire dolore.

La fisioterapia prevede l’esecuzione di esercizi specifici che contribuiscano a migliorare la mobilità articolare di piede e caviglia e a rafforzare i muscoli di sostegno.

Nella fase di ripresa della deambulazione, il paziente potrebbe dover ricorrere ad un bastone o ad una calzatura contenitiva per proteggere l’articolazione da altre lesioni.

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Frattura epifisi distale del Radio: una guida completa

Le fratture dell’epifisi distale del radio sono molto frequenti in ogni fascia d’età e in entrambi i sessi.

Ad essere colpito da una frattura epifisi distale del radio è una vasta parte della popolazione, ma in modo particolare si verificano più facilmente in soggetti giovani che svolgano attività sportiva o in soggetti anziani interessati da osteoporosi.

Tuttavia, una frattura dell’epifisi distale del radio può avere anche origine traumatica, in particolare in seguito a traumi indiretti in estensione del polso, che possono produrre uno spostamento consistente.

Questo tipo di frattura è nota anche come frattura di Colles o di Poteau Colles.

In seguito ad essa, è fondamentale procedere ad un primo trattamento specifico e stabilire un adeguato protocollo riabilitativo: questo è necessario per ridurre i tempi di recupero e favorire la ripresa del paziente, riducendo le conseguenze dovute alla deformazione della lesione e la limitazione funzionale dovuta al dolore articolare.

Epifisi distale del radio frattura: anatomia

Il nucleo di accrescimento dell’epifisi distale del radio compare dopo il primo anno di età, mentre tra i 17 e i 21 anni nelle donne e tra i 20 e i 26 anni negli uomini si fonde con la diafisi.

Alla base dell’estremità distale vi è la faccia articolare carpale, rivestita di cartilagine e suddivisa in due faccette secondarie, quali la faccetta laterale per l’articolazione con l’osso scafoide e la faccetta mediale per l’articolazione con l’osso semilunare.

I nervi che possono essere coinvolti in caso di frattura scomposta epifisi distale del radio sono tre: il nervo mediano e il nervo ulnare, sulla faccia volare; il nervo radiale sulla faccia posteriore e laterale.

I legamenti che rinforzano la capsula articolare radio-carpica sono:

  • legamenti volari, quali legamento radio-carpico volare e legamento ulno-carpico volare;
  • legamenti dorsali: legamento radio-scafoideo, legamento radio-carpico e legamento ulno-carpico-dorsale;
  • legamenti laterali: legamento collaterale radiale e il legamento collaterale ulnare.

Frattura epifisi distale radio: esami

Il principale strumento diagnostico per verificare il tipo di frattura dell’estremo distale è la radiografica, attraverso proiezioni antero-posteriore e laterale.

Tramite radiografia, è possibile acquisire informazioni relativamente alla stabilità della lesione e trarne adeguate indicazioni per il trattamento.

Sono cinque le misurazioni radiografiche consigliate per valutare fratture dell’estremità distale del radio:

  • inclinazione palmare;
  • inclinazione radiale;
  • lunghezza del radio;
  • larghezza del radio;
  • variazione ulnare.

In caso di traumi in pazienti giovani e attivi, alla radiografia vengono affiancate TAC e RMN, per permettere al medico di individuare un trattamento più idoneo al caso.

Tipologie ed esiti frattura epifisi distale radio

Le fratture dell’epifisi distale del radio sono distinguibili in due tipologie:

  • le fratture extra articolari, che coinvolgono i 3 o 4 cm distali del radio;
  • le fratture intra articolari, che si estendono fino all’articolazione radio-carpica e radio-ulnare; sono molto frequenti nei soggetti anziani, nei quali il processo di invecchiamento comporta una riduzione del tono di calcio, rendendo l’osso più fragile.

Frattura composta epifisi distale radio

La frattura composta epifisi distale del radio è una frattura che sia incompleta o nella quale i frammenti di osso sono rimasti nella loro posizione anatomica.

Frattura scomposta epifisi distale radio

frattura del radio

La frattura scomposta, invece, è una frattura al cui interno i frammenti ossei sono male allineati.

In questo caso, si deve procedere ad una riduzione attraverso manipolazione dei frammenti della frattura in modo da posizionarli adeguatamente.

Frattura epifisi distale radio: trattamento

Il trattamento chirurgico è molto indicato in questo tipo di fratture, sia nelle fratture esposte che nelle fratture chiuse quando siano associate a fratture esposte nei pazienti traumatizzati cranici, negli anziani o nei politraumatizzati.

Il trattamento chirurgico permette una riduzione anatomica e stabile della frattura, così da ripristinare in breve tempo la mobilità articolare.

Il ricorso a questo tipo di trattamento è indicato per:

  • fratture a scivolamento volare, quando la riduzione non è stabile;
  • fratture a scivolamento dorsale, quando vi è una scomposizione secondaria non trattata dall’inizio e non riducibile con manipolazioni esterne;
  • fratture scomposte della stiloide radiale;
  • fratture intra articolari irriducibili;
  • fili percutanei;
  • fili inglobati nel gesso;
  • tecnica della cementazione nell’anziano;
  • riduzione a cielo aperto e sintesi con placca;
  • fissazione elastica endomidollare;
  • metodica di Ulson;
  • sistema Epibloc;
  • fissazione esterna.

Frattura epifisi distale radio riabilitazione

Le tecniche di rieducazione funzionale e di riabilitazione del polso sono fondamentali.

L’immobilizzazione del polso ha una durata variabile, in base alla tecnica di trattamento utilizzata.

Quando si tratta di fratture trattate in modo conservativo con apparecchio gessato brachio metacarpale e nelle fratture trattate con fili percutanei e gesso, l’immobilizzazione si aggirerà intorno alle cinque settimane.

Nel caso di fratture trattate con placca, il periodo di immobilizzazione, invece, si ridurrà a circa due settimana, mentre nelle fratture trattate con fissatore esterno si procede a neutralizzazione per quattro settimane e a dinamizzazione per le tre settimane successive.

Già durante l’immobilizzazione si procede al trattamento riabilitativo, per ridurre l’edema della mano ed evitare che la rigidità si estenda alle articolazioni vicine, quali gomito, dita e spalla.

Le metacarpo falangee devono essere lasciate libere dal gesso e vanno mobilizzate in modo attivo e passivo con esercizi di abduzione e adduzione ed esercizi di pinza tra il primo dito e le altre.

Inoltre, vanno eseguiti esercizi di abduzione, rotazione esterna e retroposizione della spalla, nonché di flesso-estensione del gomito, che permettono di mantenere integre le capsule articolari e di prevenire l’inspessimento tendineo e le aderenze delle articolazioni non coinvolte.

Una volta rimossa l’immobilizzazione, si procede in modo progressivo con esercizi attivi, passivi e contro resistenza, da eseguire con la guida del terapista.

Per ridurre il dolore, possono essere applicate sull’estremo distale del radio frequenze elettrice tra i 50 e 100 Hz, come impulsi di bassa intensità e dalla durata tra i 60 e 150 microsecondi.

Inoltre, è importante procedere al trattamento dell’edema con massaggio superficiale per far riassorbire i liquidi: il massaggio non deve mai andare in profondità, altrimenti si correrebbe il rischio di flogosi, che comporta la comparsa delle calcificazioni periarticolari. Proprio per evitare tale rischio, si preferisce ricorrere a drenaggio linfatico.

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Protesi di Gomito

L’intervento di innesto di una protesi al gomito è un intervento a cui si ricorre in presenta di un danno articolare.

In questi casi, infatti, la protesi di gomito permette di sostituire la superficie articolare danneggiata servendosi di materiali non biologici, capaci di riprodurne la forma e da consentire il movimento.

L’articolazione del gomito è composta da tre elementi, che permettono di eseguire i movimenti di flessione ed estensione e di pronazione e supinazione.

Intervento protesi gomito

Si ricorre ad un intervento di protesi del gomito in diverse circostanze nelle quali il comune denominatore è dato dalla presenza di un danno grave alla superficie articolare.

Il primo caso in cui si ricorre all’intervento è quello di malattie degenerative, in particolare l’artrite reumatoide e l’artrosi.

Inoltre, può essere indicato anche in caso di fratture recenti dell’omero distale e di pseudoartrosi, ossia quando non si verifica il processo di consolidazione della frattura.

In particolare, l’intervento è indicato per i pazienti anziani che abbiano limitate richieste funzionali o che presentino situazioni cliniche che impediscano l’osteosintesi.

Di contro, si sconsiglia l’opzione chirurgica quando vi siano pazienti giovani e con alte richieste funzionali e per i pazienti che presentino un’infezione attiva a livello locale o sistemico o cicatrici retraenti nella regione del gomito, ciò è dovuto dalla presenza di un alto rischio che si verifichi una necrosi cutanea.

Protesi gomito capitello radiale

protesi al gomito

Alla protesi al gomito si ricorre anche in caso di fratture del capitello radiale, le quali possono interessare il capitello, il collo del radio o entrambe le componenti.

Si tratta del caso più frequente di frattura del gomito e può essere causato da una caduta sul palmo della mano.

Questa frattura può essere di quattro tipi: frattura ad un solo frammento composta, frattura ad un solo frammento scomposta, frattura pluri-frammentaria e frattura con lussazione del gomito.

Protesi gomito: tipologie

Esistono due diversi tipi di impianto:

  • la protesi gomito totale, che riproduce la superficie articolare del gomito attraverso la componente omerale e la componente ulnare, accoppiate tra loro tramite una componente in metallo polietilene; questo tipo di protesi può essere con cerniera o senza cerniera, a seconda che vi sia o meno una cerniera a creare un vincolo meccanico tra le due componenti; le protesi a cerniera hanno una decisa stabilità intrinseca e sono le più utilizzate in Italia e negli Stati Uniti; le protesi senza cerniera, invece, fondano la loro stabilità sulla ricostruzione capsulo-legamentosa e sul bilanciamento delle parti molli;
  • la emiartroprotesi omerale, che prevede la sostituzione solo dell’estremità distale dell’omero con una protesi in metallo, la quale deve adattarsi alla superficie ulnare e radiale contrapposta.

Protesi gomito riabilitazione

In seguito all’intervento di innesto, il paziente dovrà seguire un percorso di riabilitazione e prestare adeguata attenzione nell’utilizzo dell’articolazione operata.

Nell’immediato post operatorio, viene prescritto l’utilizzo di una gomitiera per poi decidere come posizionare il gomito con una valva in estensione o in flessione e quando iniziare la terapia, soprattutto in base al tipo di intervento, alla tecnica utilizzata e alle condizioni della cute.

Durante il percorso riabilitativo, il fisioterapista guida il paziente nell’esecuzione di esercizi finalizzati alla mobilizzazione auto-assistita dell’arto in movimenti di flesso-estensione e prono-supinazione.

Inoltre, il paziente dovrà evitare l’esecuzione con l’arto operato di attività faticose o di gesti ripetitivi e gravosi.

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Protesi di Spalla

I casi in cui può essere necessario ricorrere ad un intervento di protesi spalla possono essere di diverso genere, così come di diverso tipo possono essere le protesi utilizzate.

Una protesi alla spalla può innestarsi solo sulla testa dell’omero o sostituire anche la parte glenoidea a livello scapolare: nel primo caso, si parla di protesi spalla parziale, mentre nel secondo caso di protesi di spalla totale.

Oggi, si sente parlare spesso anche della tecnica della protesi inversa spalla: si tratta di una nuova procedura di chirurgia della spalla degenerativa, che ha permesso di ottenere risultati migliori nell’ambito della chirurgia protesica, soprattutto nei casi di artrosi della spalla.

Protesi spalla applicazioni

Le principali applicazioni di una protesi alla spalla sono quelle in presenza di artrosi, in cui vi è una perdita della cartilagine di rivestimento con scomparsa dello spazio articolare tra omero e scapola e la formazione di osteofiti, ossia delle escrescenze ossee.

L’artrosi della spalla può essere primaria o secondaria, dovuta a traumi, a malattie infiammatorie a carico dell’articolazione, come l’artrite reumatoide, a patologie metaboliche, a malformazioni anatomiche o allo svolgimento di attività usuranti per l’articolazione della spalla.

Si ricorre all’intervento di protesi quando il trattamento conservativo non abbia dato i risultati sperati, quando la limitazione funzionale sia grave o quando il dolore sia seriamente invalidante.

Inoltre, si opta per un intervento di protesi alla spalla anche nei casi di osteoartrite, ossia una patologia degenerativa che vede l’usurarsi dell’articolazione dovuta all’avanzare dell’età.

Ancora, l’intervento di protesi spalla è necessario per i pazienti con artrite reumatoide, osteonecrosi, artropatia della cuffia dei rotatori o gravi fratture della spalla.

La decisione se optare o meno per un intervento di innesto di una protesi spetta allo specialista, in seguito alla presa visione del quadro clinico del paziente e in considerazione di una serie di fattori, quali il livello di dolore e i sintomi, il grado di compromissione della funzionalità dell’articolazione, nonché l’età, le condizioni di salute e lo stile di vita del paziente.

Protesi spalla inversa

L’idea di una protesi inversa di spalla è nata negli anni ’80 da un chirurgo francese.

Questo intervento consiste nell’inversione della normale geometria della spalla, con la sostituzione della concavità della glena con una convessità, rappresentata dalla glenosfera metallica.

Tale tipologia di intervento permette di migliorare le leve della spalla.

In origine, la protesi inversa della spalla nasce solo per le artropatie eccentriche di spalla dovute ad insufficienza di cuffia.

In seguito, è stata utilizzata anche per il trattamento chirurgico delle artrosi concentriche gravi e delle patologie legate alla lesione cronica irreparabile della cuffia dei rotatori, anche in mancanza di grave artrosi.

Protesi inversa di spalla complicanze

Il rischio di insorgenza di complicanze dovute all’innesto di una protesi inversa di spalla riguarda circa il 20% dei casi e l’insorgere di complicanze generali, quali tromboembolia o infarto sono davvero rare.

Tuttavia, è importante sapere che il rischio di complicanze può aumentare in presenza di alcune malattie croniche e abitudini scorrette: è il caso, ad esempio, di diabete e fumo.

In genere, le complicanze hanno un’incidenza maggiore quando la protesi inversa viene impiantata in seguito a fratture o in sostituzione di precedenti protesi.

Le complicanze più frequenti sono:

  • lussazione e instabilità della protesi inversa, che possono verificarsi nei primi mesi dopo l’intervento; nella maggioranza dei casi, è sufficiente ricorrere ad un trattamento conservativo e ad un tutore, mentre in altri casi può essere necessario un nuovo intervento;
  • rigidità dell’articolazione e deficit di forza, che possono essere causate da aderenze cicatriziali; in questi casi, si ricorre alla fisioterapia per migliorare tali disturbi; quando vi è un deficit di forza nei movimenti di extra rotazione, invece, si può ricorrere ad intervento chirurgico di trasposizione del muscolo gran dorsale;
  • infezione, che può presentarsi più in superfice intorno alla protesi o in profondità, nell’immediatezza dell’intervento o anche dopo anni da questo; quando si tratta di infezioni locali, si ricorre all’assunzione di antibiotici, mentre in caso di infezioni gravi o profonde può essere necessario procedere alla rimozione della protesi.

Protesi inversa spalla riabilitazione

In seguito ad un intervento di innesto di una protesi spalla inversa, si consiglia di seguire un percorso di riabilitazione.

Il protocollo riabilitativo da adottare in questi casi non è definito e condiviso, questo perché esistono molti elementi che possono influire in modo significativo sul recupero post operatorio.

Tra questi, vi sono:

  • lo stato preoperatorio di muscoli, tendini e articolazione;
  • il livello di allenamento del paziente;
  • la qualità ossea dell’omero e della scapola;
  • l’integrità della residua parte della cuffia dei rotatori;
  • la causa dell’intervento di protesi;
  • il tipo di impianto utilizzato.

In genere, il percorso fisioterapico dovrà investire tre aspetti: la protezione dell’articolazione, la funzione del deltoide e le aspettative funzionali.

Il percorso di riabilitazione inizia subito dopo l’intervento: nelle prima settimane, vi è un maggiore rischio di lussazione antero inferiore della protesi, per cui il paziente dovrà essere guidato in modo tale da evitare il compimento di determinati movimenti e attività.

Nella maggior parte dei casi, viene consigliato l’utilizzo di un tutore per sostenere il braccio in abduzione durante le prime settimane e per un periodo la cui durata varia a seconda dello stato di muscoli e tendini.

La stabilità e la mobilità di una spalla con protesi inversa dipendono dal deltoide e dalla muscolatura periscapolare, per cui sarà fondamentale rinforzarli già durante la prima fase post operatoria.

Inoltre, la scarsa mobilità gleno omerale viene compensata attraverso un incremento della mobilità della zona scapolare, per cui è necessario rinforzare la muscolatura periscapolare in modo graduale, attraverso l’esecuzione di attivazioni isometriche del deltoide già durante la prima settimana.

Dopo circa 6-8 settimane, si potrà procedere all’esecuzione di esercizi di rinforzo con contrazioni isotoniche di deltoide e muscoli periscapolari.

Per la ripresa delle attività quotidiane, possono essere eseguiti esercizi aspecifici, che vadano a stimolare la muscolatura scapolo omerale.

Nel caso di pazienti giovani, con un buon livello di allenamento muscolare e con l’obiettivo di una rapida ripresa dell’attività sportiva, invece, si deve impostare un lavoro di rinforzo specifico, che preveda anche lo svolgimento di esercizi che simulino i gesti atletici.

Costo protesi spalla

I costi per un intervento di protesi alla spalla possono variare in considerazione della tipologia di protesi, del tipo di intervento e dei costi propri della singola clinica.

In media, questi oscillano tra i 10 mila e i 15 mila euro.

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Protesi di Caviglia

L’intervento di protesi alla caviglia è un intervento a cui si ricorre in presenza di determinate patologie che interessano l’articolazione della caviglia.

Quest’ultima è costituita da tibia ed astragalo e svolge funzione di sostegno della maggior parte del peso di un soggetto in posizione eretta. Inoltre, permette al piede di eseguire i movimenti di flessione e di estensione plantare.

In particolare, l’applicazione elettiva della protesi di caviglia si ha nei pazienti che soffrono di artrosi, la quale è una malattia degenerativa che ha una maggiore incidenza nei soggetti di età superiore ai 60 anni e che consiste in un fenomeno di usura della cartilagine di rivestimento della superficie dell’articolazione.

La struttura della caviglia fa sì che l’artrosi alla caviglia sia molto rara, in quanto l’articolazione è per natura meno predisposta a svilupparla rispetto alle articolazioni di ginocchio e anca.

In genere, infatti, l’artrosi della caviglia deriva da un trauma, come eventi distorsivi ripetuti o una frattura, per cui l’età media dei pazienti che ne sono affetti oscilla tra i 25 e i 50 anni.

Si procede ad intervento solo nei casi in cui l’articolazione sia compromessa in modo significativo.

Artrosi e protesi caviglia

protesi alla caviglia

La protesi della caviglia è la soluzione più efficace in presenza di artrosi.

Data la natura traumatica di questa patologia, infatti, il trattamento conservativo non è particolarmente efficace, in quanto la progressione dell’artrosi e la deformità articolare che ne deriva possono essere molto rapide.

Per questo motivo, spesso l’intervento di protesi caviglia è la soluzione più idonea per la risoluzione del problema.

L’intervento di impianto della protesi caviglia dura circa un’ora e viene eseguito in anestesia spinale o, a scelta del paziente, anche in anestesia totale.

Protesi caviglia camminare e svolgere attività post intervento

Una volta rimosso il gesso, la ripresa delle attività quotidiane avviene entro i 15-30 giorni successivi all’intervento.

Già dopo i primi due mesi, il paziente sarà in grado di guidare, mentre per una completa stabilizzazione dei risultati dell’intervento si devono attendere circa 6-8 mesi.

Il recupero post operatorio avviene in modo graduale e continuo, con affiancamento di un percorso di riabilitazione.

Protesi caviglia o artrodesi

Un’alternativa alla protesi è l’intervento di artrodesi.

Si tratta di un intervento che può essere eseguito con tecnica mini invasiva, ossia in artroscopia, o aprendo l’articolazione con incisione.

La scelta tra intervento in artroscopia o a cielo aperto avviene in base allo stato di deformazione della caviglia: in presenza di deformazioni lievi, si opta per l’artroscopia, mentre negli altri casi più seri e gravi allora si procede con intervento invasivo.

Scopo dell’intervento è quello di rimuovere la cartilagine e di bloccare le ossa dalla tibia all’astragalo utilizzando mezzi di sintesi specifici.

Ciò permette alle due ossa di fondersi in un unico osso, così da eliminare il dolore e il movimento.

In seguito all’intervento, si procede ad immobilizzazione dell’articolazione con gesso o tutore per 30-40 giorni, senza possibilità di carico.

La differenza tra l’intervento di innesto di una protesi alla caviglia e l’artrodesi sta nel fatto che nel primo caso si mantiene il movimento dell’articolazione, mentre nel secondo caso l’articolazione viene fusa e bloccata in una posizione neutra per evitare il dolore costante, ma perdendo la capacità di movimento della stessa.

Grazie al progresso verificatosi negli ultimi anni nell’ambito degli interventi di protesi, l’artrodesi viene scelta in casi residuali, in particolare quando sia sconsigliata la protesi per condizioni particolari del paziente o dell’osso o quando si debba revisionare una protesi e non possa essere sostituita con un’altra.

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Protesi d’anca

Sono molte le persone che ricorrono ad un intervento di impianto di protesi dell’anca.

Nella totalità dei casi, all’intervento deve seguire una riabilitazione adeguata, in modo da agevolare il recupero post operatorio.

Perché vi sia un recupero funzionale effettivo e in tempi ridotti, infatti, è necessario non solo eseguire esercizi specifici, ma soprattutto evitare una serie di movimenti, che possono compromettere o quanto meno ritardare il ritorno alle ordinarie attività.

In genere, i casi in cui si rivela necessario ricorrere alle protesi all’anca sono quei casi in cui l’articolazione sia colpita da fenomeni artrosici.

Nello specifico, l’artrosi all’anca prende il nome di coxartrosi e consiste in una patologia a carattere degenerativo, che colpisce le superfici articolari di femore ed anca, portando ad una progressiva degenerazione della cartilagine intra articolare.

La coxartrosi è causata dall’invecchiamento delle cellule del corpo, ma, nello stadio iniziale, può essere rallentata ricorrendo a terapie conservative.

Tuttavia, quando vi sono casi più gravi di artrosi, l’intervento di innesto di una protesi d’anca si rivela necessario per ripristinare la funzionalità dell’articolazione.

Protesi anca e tipologie

Esistono diverse tipologie di protesi, tra cui l’ortopedico sceglie in base alla gravità della patologia e alle esigenze di recupero funzionale del singolo paziente.

In ragione di tali distinzioni, si parla di:

  • protesi anca totale o artroprotesi, che sostituisce sia la testa del femore che la fossa acetabolare, tramite impianto diretto sull’osso iliaco; ad essa si ricorre in caso di pazienti giovani, i quali presentano necessità articolari e di recupero funzionale di grado maggiore rispetto ad un anziano;
  • protesi anca parziale o endoprotesi, che sostituisce solo la testa del femore; questa è meno invasiva e si utilizza per i pazienti anziani, che hanno basse esigenze funzionali.

Protesi anca durata

La durata e la funzionalità di una protesi dipendono da una serie di fattori anatomici e dallo stile di vita del paziente.

In genere, circa il 90% delle protesi arriva in ottime condizioni fino a 20/25 anni dal loro impianto, mentre il 25% delle protesi inizia a mostrare segni di osteorarefazione dopo circa 10 anni, ma senza che vi siano sintomi né fastidi percepiti dal paziente.

Infatti, il ricorso ad un intervento di revisione della protesi è più che raro, anche se nei pazienti giovani si consiglia di adottare alcune precauzioni in modo da evitarlo, ritardarlo o, quanto meno, da renderlo più semplice, nel caso in cui dovesse essere necessario.

Alcuni accorgimenti da tenere a mente sono i seguenti:

  • avere sempre sotto controllo il peso corporeo, così che non gravi in modo eccessivo sull’anca;
  • ridurre il carico meccanico, evitando sport ad alto impatto, come basket, pallavolo o corsa, e preferendo golf, camminata, tennis, bike e nuoto;
  • evitare le attività lavorative pesanti che prevedono l’esecuzione di ripetuti movimenti traumatici a carico dell’anca;
  • evitare movimenti bruschi o improvvisi in flessione o in rotazione del tronco;
  • limitare gli sforzi eccessivi.

Riabilitazione protesi anca

Seguire i protocolli riabilitativi e le indicazioni del fisioterapista per una corretta esecuzione degli esercizi è fondamentale per il buon recupero dell’articolazione in seguito all’intervento.

Una corretta riabilitazione, infatti, permette di massimizzare il risultato operatorio e di accelerare il recupero fisico.

Nelle prime settimane post operatorie, circa le prime 8/10 settimane, è importante utilizzare le stampelle, eliminare eventuali ostacoli, evitare i movimenti di flessione dell’articolazione oltre i 90 gradi e i movimenti di intra rotazione e di abduzione con la massima flessione.

In sostanza e a titolo esemplificativo, è consigliato evitare di:

  • mettere le scarpe o le calze da soli;
  • dormire sul lato operato e senza posizionare il cuscino tra le gambe;
  • guidare;
  • accavallare le gambe;
  • sedersi su sostegni bassi.

In seguito ad un intervento di protesi all anca i migliori centri riabilitativi prevedono un piano di esercizi specifici sia in fase pre-operatoria, che in fase post-operatoria.

Protesi anca movimenti da evitare sempre

In seguito ad un intervento di protesi all’anca, è consigliato adottare alcuni accorgimenti nella vita di tutti i giorni, così da rivedere alcune delle azioni che si svolgono comunemente e in modo automatizzato.

In primis, è importante fate attenzione a come ci si siede e ci si alza dalla sedia, soprattutto nelle fasi immediatamente successive all’intervento.

Per sedervi, cominciate posizionando la parte posteriore delle ginocchia a contatto con la sedia, tenendo le stampelle nella mano dell’anca operata, caricando il peso sulla gamba non operata e aiutandovi con le stampelle per mantenervi in equilibrio.

Per alzarvi, invece, posizionate il piede del lato dell’anca operata più lontano rispetto all’altro, avvicinatevi al bordo della sedia e caricate il peso sulla gamba non operata, utilizzando sempre la stampella per reggervi al meglio.

Altro movimento a cui fare attenzione è la salita e la discesa dal letto, durante le quali il lato operato non deve essere sollecitato in modo eccessivo.

Per salire sul letto, sedetevi sul bordo, fate scivolare all’indietro l’anca, mantenendovi sulle braccia, sollevate lateralmente le gambe e portatele sul letto, iniziando dal lato con la protesi.

Per scendere dal letto, invece, fate scivolare le gambe posizionando i talloni fuori dal letto e sostenete il peso del corpo con le braccia, finché i piedi non toccano terra, per poi alzarvi facendo forza sulle braccia.

Movimenti cauti devono essere eseguiti anche per salire e scendere dalla macchina.

Per salire, portate il sedile anteriore più lontano possibile dal cruscotto e reclinatelo così da tenere la gamba operata distesa, dopodiché avvicinate il retro delle ginocchia al sedile, abbassatevi poggiando la mano sinistra sul cruscotto e quella destra sul sedile, tenendo sempre la gamba dritta. Per scendere dall’auto, poggiate i piedi per terra e utilizzate le braccia per salire.

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Gonartrosi o artrosi del ginocchio

L’artrosi del ginocchio, chiamata anche gonartrosi, è una patologia sempre più diffusa, si manifesta in età avanzata, ma non solo, spesso si presenta anche in giovane età.

La gonartrosi è causata dal progressivo indebolimento della cartilagine articolare, un elemento fondamentale per tutti i nostri movimenti, che porta, successivamente, al deterioramento delle altre componenti del ginocchio, come i legamenti, i menischi, i tendini e l’osso subcondrale.

Come possiamo riconoscere l’artrosi del ginocchio?

Molto spesso questa patologia è asintomatica, ma generalmente i sintomi che consentono di riconoscerla sono in primo luogo il dolore, poi il conseguente gonfiore e infine, la ridotta capacità di movimento che provoca frequenti scricchiolii di tutta l’articolazione.

Col passare del tempo l’artrosi del ginocchio provoca una deformità articolare, che progressivamente porta ad una sempre maggiore limitazione dei movimenti, è quindi, molto importante non sottovalutare i vari campanelli d’allarme segnalati dal nostro corpo.

L’artrosi del ginocchio, nello specifico, è una patologia che normalmente si manifesta negli anziani, ma a volte può presentarsi anche in giovane età, per diverse cause. Alcuni dei fattori di rischio che facilitano lo sviluppo della gonartrosi possono essere legati, ad esempio, ad una familiarità, ad un problema di sovrappeso, ad uno stile di vita particolarmente sedentario, oppure a traumi subiti al ginocchio.

Ci chiediamo tutti, a questo punto, se si può guarire da questa patologia. In realtà l’artrosi, in generale, è una malattia irreversibile, da cui non si può guarire, ma attraverso vari trattamenti e terapie è possibile ritardarne l’avanzamento.

I trattamenti che consigliano gli specialisti dipendono dalla fase più o meno grave della malattia, ad esempio, nelle forme meno gravi si consigliano delle terapie mediche, con antinfiammatori per il dolore, terapie fisioterapiche accompagnate da infiltrazioni articolari, che consentono di risolvere il problema momentaneamente, e infine, l’utilizzo di una ginocchiera rotulea che mantiene il movimento del ginocchio controllato.

In quest’ultimo caso, l’utilizzo di tutori può essere un’opzione da non sottovalutare, poiché garantisce sollievo per il dolore e funge da supporto per la mobilità dell’articolazione. I tutori per il ginocchio sono, generalmente, realizzati con un tessuto a maglia compressivo e traspirante, che è molto comodo e confortevole da indossare. E’ presente, inoltre, un inserto viscoelastico, avente un design funzionale e anatomico, che ha lo scopo di massaggiare tutta l’articolazione e la muscolatura.

Se, invece, è necessaria una stabilità e un controllo maggiore del movimento, si consiglia di utilizzare un’altra tipologia di tutore, che grazie ad una particolare imbottitura, allevia il dolore e offre una qualità migliore del movimento del ginocchio.

Generalmente, gli specialisti per i pazienti affetti da artrosi del ginocchio, consigliano di prestare molta attenzione anche agli sport da poter praticare, ad esempio, è fondamentale scegliere uno sport che non sovraccarichi l’articolazione, quindi, sono preferibili le attività motorie come il nuoto o la bicicletta, rispetto ad altre che potrebbero, invece, compromettere ulteriormente il ginocchio.

Chirurgia nella gonartrosi

Nei casi più gravi, invece, gli specialisti consigliano ai pazienti di sottoporti ad un intervento chirurgico che permette di impiantare una protesi al ginocchio.

Innanzitutto, dobbiamo sapere che la protesi da dover impiantare al ginocchio con quest’operazione,  deve possedere delle caratteristiche specifiche, ad esempio, dev’essere costruita con materiali molto resistenti, deve essere in grado si sopportare i carichi e, infine, dev’essere perfettamente compatibile con il corpo umano.

I materiali che si utilizzano solitamente, per le protesi da utilizzare al ginocchio, sono il titanio, che si integra perfettamente con l’osso, le leghe di cromo-cobalto, che vengono adoperate per le parti sottoposte a scorrimento, e il polietilene che serve a rivestire tutto il piatto tibiale. Esistono, inoltre, diverse tipologie di protesi che vengono impiantate a seconda dell’età del paziente o del suo grado di artrosi.

Ad esempio, è necessario impiantare una protesi totale quando l’artrosi prende l’intero ginocchio, mentre è possibile ricorrere ad una protesi parziale se, invece, bisogna intervenire su una sola parte dell’articolazione del ginocchio.

A questo proposito, per capire meglio come si svolge l’intervento, ci siamo rivolti allo specialista esperto in chirurgia protesica mini invasiva, il dottor Michele Massaro, che ci ha  dato consigli preziosi da seguire.

Prima di tutto il dottor Massaro ci ha rassicurato, affermando che questo tipo di operazione viene ormai svolta frequentemente, sono, infatti, sempre più numerosi i pazienti che si sottopongono all’impianto delle protesi al ginocchio.

Il suo lungo e accurato studio nell’ambito della chirurgia mini invasiva, gli ha permesso di essere oggi un grande specialista del settore. Grazie all’impianto di protesi mini invasive, infatti, offre moltissimi vantaggi ai suoi pazienti, attraverso queste tecniche innovative riesce a migliorare il disagio del paziente e, soprattutto, limita al minimo eventuali danni causati dall’intervento chirurgico.

Il dottor Massaro opera, nella maggior parte dei casi, impiantando le cosiddette “protesi monocompartimentali”, cioè parziali, che consentono di effettuare un intervento veloce e poco invasivo. Questo tipo di protesi, che va ad intervenire su una sola parte del ginocchio, è molto diffusa soprattutto all’estero, mentre in Italia è di recente utilizzo.

Per le  gonartosi più gravi è necessario impiantare al paziente una protesi totale, che va ad interessare il ginocchio per intero, ma anche in questo caso, il dottor Michele Massaro cerca di intervenire salvaguardando i tessuti del ginocchio e i legamenti del crociato sia posteriore che anteriore.

La maggior parte dei pazienti si chiede, spesso, quanto duri il decorso post operatorio e, soprattutto, quali siano i comportamenti motori più giusti da seguire.

In generale, il periodo di recupero totale, dopo aver subito l’operazione, è di circa 45 giorni; nel corso di questo periodo bisogna fare molta attenzione a seguire in modo corretto tutte le indicazioni del medico, affinché la libertà motoria si recuperi perfettamente.

Ad esempio, alcuni dei vari step da dover seguire sono, inizialmente la pratica di fisioterapia che prevede l’esecuzione di esercizi specifici da svolgere a letto, subito dopo, precisamente dal terzo giorno, è possibile iniziare una deambulazione assistita, e infine, nell’arco di 15 giorni il paziente potrà cominciare a camminare con l’aiuto delle stampelle.

Ovviamente la qualità del recupero dipende dalla disciplina del paziente, ma soprattutto, dalla competenza dello specialista a cui si affida, quindi, è importante documentarsi e ascoltare diversi pareri medici prima di decidere.

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Protesi anca mini invasiva

L’intervento di innesto di una protesi anca mini invasiva comporta la sostituzione della testa del femore e dell’acetabolo con componenti in titanio e un inserto in polietilene.

Si ricorre a tale tipo di protesi per ripristinare la funzionalità dell’anca del paziente, così che possa tornare alle proprie attività di vita quotidiana, potendo tornare anche a praticare attività sportiva a livello moderato.

In seguito a tale tipo di intervento, infatti, è consigliato praticare sport come nuoto, tennis, golf o cyclette e dedicarsi a passeggiate anche in montagna.

Nella maggior parte dei casi, alla protesi all’anca si ricorre in presenza di coxartrosi o artrosi dell’anca, ossia quella patologia degenerativa che colpisce la cartilagine di rivestimento del femore e/o dell’acetabolo.

L’attrito tra le superfici che restano scoperte causa dolore e limitazione funzionale.

Ciò porta alla necessità di ricorrere alla sostituzione articolare, con cui si procede al rivestimento delle superfici ossee con protesi mini invasive.

Dunque, l’applicazione di una protesi mini invasiva anca è la soluzione ideale in presenza di una serie di fattori, quali:

  • la gravità e la frequenza del dolore;
  • la risposta del paziente ai farmaci antinfiammatori e antidolorifici;la durata del dolore;
  • il tipo e il grado dell’artrosi;
  • il tipo di risposta alla terapia conservativa attraverso fisioterapia, infiltrazioni di acido ialuronico e magnetoterapia;
  • la qualità di vita del paziente e le sue aspettative post operatorie.

Protesi d’ anca mini invasiva: tipologie

Esistono diversi modelli di protesi per l’anca:

  • l’endoprotesi, ossia la protesi del femore senza rivestimento dell’acetabolo, la quale viene utilizzata per le fratture del collo del femore di soggetti anziani;
  • la protesi di rivestimento, ossia una sfera metallica, che va a coprire la superficie della testa del femore e a cui si ricorre per soggetti giovani, soprattutto sportivi;
  • la protesi totale dell’anca, ossia una protesi del femore e dell’acetabolo, utilizzata nei casi di coxartrosi.

Ma la protesi anca mini invasiva dove si colloca? La protesi totale mininvasiva dell’anca viene inserita per sostituire l’articolazione coxofemorale.

Tecnica mini invasiva protesi anca

L’intervento di innesto di protesi all’anca si realizza ricorrendo alla chirurgia mininvasiva, la quale permette un migliore e più rapido recupero funzionale.

La protesi all’anca può essere eseguita attraverso diversi accessi chirurgici, quali l’accesso chirurgico anteriore, quello laterale e quello postero laterale.

In genere, l’accesso postero laterale permette di raggiungere l’articolazione coxo femorale incidendo il retro cantere, senza toccare tendini e muscoli.

Si ricorre alla protesi anca mini invasiva anteriore, invece, sfruttando la via d’accesso anteriore: ciò permette di effettuare l’intervento di sostituzione della protesi dell’anca con un approccio poco invasivo.

La protesi dell’anca è costituita da una componente femorale, che va inserita nel canale femorale, da una testina femorale e da una componente acetabolare, che viene inserita nel bacino.

Su quest’ultima, si inserisce l’inserto in polietilene, che agevola lo scorrimento delle superfici delle protesi.

L’intervento di sostituzione della protesi d’anca può essere eseguito con tecnica femur first, termine inglese che si traduce come “il femore per primo”, in ragione del fatto che si inizia preparando per primo il canale femorale, servendosi di apposite frese.

In seguito, si inserisce la componente femorale e si prepara l’acetabolo con apposite frese, che permettono di inserire a pressione la componente acetabolare.

Si prepara per primo il femore, in quanto vi è un accoppiamento delle protesi su tutti i piani dello spazio.

L’intervento può durare dai 50 ai 60 minuti, in base al paziente, e permette di tornare al normale svolgimento delle proprie attività in circa 4 settimane.

Protesi all’ anca mini invasiva vantaggi

Rispetto alla chirurgia protesica tradizionale, la tecnica protesica mini invasiva presenta molti vantaggi, quali:

  • una riduzione dei tempi di intervento, riabilitazione e recupero;
  • un’incisione ridotta con conseguente minore perdita di sangue e cicatrice meno evidente;
  • un trauma ridotto, per cui dolore e gonfiore sono inferiori rispetto alla tecnica tradizionale;
  • non vengono intaccati muscoli, cartilagine e parti ossee sane;
  • la riduzione dell’attrito tra testa femorale e acetabolo;
  • la riduzione delle complicanze;
  • l’azzeramento del rischio di rigetto, grazie all’utilizzo di materiali inerti.

Protesi anca mini invasiva rischi

I rischi e le complicanze derivanti dall’innesto di una protesi dell’anca possono essere di tre tipi:

  • lussazione: fuoriesce la testa del femore dall’acetabolo; ciò può avvenire in seguito ad un evento traumatico o ad una rotazione dell’arto in cui si faccia perno sul piede;
  • mobilizzazione asettica delle protesi: la protesi e l’osso del paziente perdono aderenza e contatto;
  • infezione periprotesica.

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Protesi Ginocchio

Si ricorre all’impianto di protesi al ginocchio quando l’articolazione del ginocchio si danneggia.

L’intervento di impianto mira a ripristinare la mobilità articolare del paziente e a ridurre il dolore da questo percepito, soprattutto nei casi di lesioni gravi.

Nei casi in cui il danno all’articolazione sia di lieve entità, è possibile limitarsi ad un trattamento conservativo, ricorrendo alla fisioterapia o a farmaci antinfiammatori.

Di contro, quando i danni sono di entità più seria, si ricorre ad interventi protesi ginocchio, ai quali deve seguire necessariamente una corretta riabilitazione.

Intervento protesi ginocchio

Il dubbio che attanaglia tanti pazienti prima dell’operazione è: protesi del ginocchio dolorosa o no?

In realtà, esistono due tipologie di protesi al ginocchio, la protesi totale e la protesi parziale, la cui scelta spetta al chirurgo, soprattutto in base all’età e allo stato generale di salute del paziente.

Tuttavia, nonostante l’intervento di impianto di una protesi del ginocchio sia un intervento di tipo invasivo, questo non è doloroso, né la protesi porta dolori nel tempo.

Inoltre, da esso derivano risultati significativi: in seguito all’intervento, infatti, il paziente è in grado di recuperare uno stile di vita normale, senza dover subire particolari limitazioni, anche di movimento.

In sostanza, tramite l’innesto di una protesi, la vecchia articolazione danneggiata viene sostituita con una artificiale.

I soggetti che si sottopongono ad un intervento di protesi, sono generalmente persone anziane tra i 60 e gli 80 anni, i quali sono anche i più colpiti da processi di osteoartrosi e di artrite reumatoide.

In caso di individui più giovani, invece, si preferisce optare per soluzioni meno invasive e più durature.

L’intervento mira a:

  • ridurre il dolore;
  • migliorare la mobilità articolare e le capacità motorie del paziente;
  • migliorare la complessiva qualità della vita del soggetto.

Una volta applicata, la protesi totale dura circa 15/20 anni, mentre una protesi parziale dura tra i 10 e i 15 anni.

Intervento di protesi totale ginocchio

La procedura può durare da un’ora a tre ore e si snoda attraverso tre fasi:

  • l’incisione all’altezza della rotula;
  • la rimozione delle estremità ossee consumate di tibia e femore;
  • la sostituzione con un’articolazione artificiale.

La rotula viene spostata da un lato, così da arrivare all’intero impianto articolare del ginocchio, per poi rimuovere le estremità ormai consumate di tibia e femore, che vengono sostituite con placche metalliche.

Tra le due placche, viene inserito un elemento spaziatore in plastica, che svolge la funzione propria della cartilagine, così da evitare lo sfregamento tra femore e tibia.

In caso di danneggiamento esteso anche alla rotula, sulla parte interna si applica una placca metallica.

Intervento di protesi parziale ginocchio

La procedura richiede un’incisione minore rispetto a quella necessaria per un intervento di protesi totale e consiste nella rimozione di una sola parte di osso, quindi del femore o della tibia.

La protesi parziale è meno invasiva, l’incisione è meno profonda e richiede tempi di guarigione inferiori, con minore durata anche della successiva riabilitazione.

Protesi ginocchio complicanze

Le complicanze in seguito ad un intervento di protesi al ginocchio sono davvero rare, tanto che problemi gravi, come il caso di un’infezione al ginocchio, si verificano in meno del 2% dei pazienti.

Complicazioni mediche ulteriori, come ictus o infarto, sono ancora meno frequenti, anche se la presenza di malattie croniche può aumentare il rischio di problemi.

Quando si presentano tali complicazioni, è possibile che i tempi di recupero siano maggiori o che il recupero non avvenga in modo pieno.

Seppur molto rare, le complicanze che è possibile sperimentare sono:

  • infezioni;
  • trombi;
  • problemi legati all’impianto;
  • dolore continuo;
  • lesioni neuro vascolari.

Protesi ginocchio riabilitazione

Prima e dopo l’intervento chirurgico, è importante sottoporsi ad un programma riabilitativo, che permette di ottenere un migliore risultato funzionale.

Infatti, eseguita anche prima dell’intervento, la riabilitazione contribuisce a migliorare la qualità del recupero e a ridurne i tempo.

In tal senso, è importante sottolineare come ogni paziente abbia tempi di recupero diversi, per cui andranno seguiti protocolli riabilitativi personalizzati.

In genere, il recupero può richiedere circa sei settimane, durante le quali guarisce l’incisione chirurgica e si procede ad un ripristino muscolare e fisico, così che si riassuma un equilibrio psico-fisico e si possa tornare alle attività quotidiane.

Tuttavia, perché si possa ottenere un risultato funzionale ottimale, è necessario ricostruire la muscolatura della coscia.

In quest’ottica, si ricorre ad esercizi di rinforzo muscolare, da seguire già prima dell’intervento.

Riabilitazione protesi ginocchio post intervento

In seguito all’intervento, il paziente inizierà un protocollo riabilitativo, i cui obiettivi saranno:

  • controllare il dolore;
  • prevenire le complicanze dovute all’immobilizzazione dell’arto, quali embolia polmonare, tromboflebiti, retrazioni capsulo-legamentose, piaghe da decubito;
  • ottenere una buona mobilità del ginocchio;
  • rinforzare la muscolatura;
  • camminare, inizialmente utilizzando due bastoni canadesi, che poi andranno abbandonati gradualmente.

Gonfiore al ginocchio dopo intervento di protesi

Molti pazienti lamentano una sensazione di gonfiore dopo intervento protesi totale ginocchio.

Non è raro che ciò avvenga, ma non deve destare grosse preoccupazioni.

Infatti, percepire una sensazione di gonfiore e di un elastico stretto intorno alla gamba è molto frequente, ma per risolvere il problema è importante affidarsi ad un protocollo di riabilitazione appropriato.

In questo modo, il paziente potrà ripristinare la mobilità dell’articolazione.

Inoltre, per ridurre il gonfiore dopo l’intervento, si consiglia di stare a riposo, assumere un antidolorifico, ricorrere ad impacchi di ghiaccio per 15/20 minuti per 4 o 5 volte al giorno e mantenere sollevata la gamba.

Costo intervento protesi ginocchio

In genere, l’intervento di protesi di tipo totale o parziale è in convenzione con il sistema sanitario nazionale, per cui non porta costi per il paziente.

Tuttavia, le cose cambiano ove il paziente decida di sottoporsi ad intervento in una struttura privata, in cui i costi possono cambiare in base alla struttura stessa.

Infatti, si devono calcolare i costi di degenza, della sala operatoria, dell’anestesista, del chirurgo e della protesi da impiantare.

Di conseguenza, in questi casi, il preventivo oscillerà tra i 5 mila e gli 8 mila euro.

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